La monache da 80 anni a Viboldone: «È il nostro modo di abitare la storia»

Il racconto di madre Maria Ignazia Angelini, da oltre mezzo secolo presente nell’abbazia di San Giuliano

Appartate dal mondo, ma tutt’altro che distanti dai tumulti della società. Quasi che il monastero sia una sorta di microcosmo dove tendenze e tensioni, umane e spirituali, tengono il passo degli anni e si intersecano con le fasi della Storia. Della società e della Chiesa.

La comunità monastica delle benedettine di Viboldone compie ottant’anni dall’insediamento nell’abbazia trecentesca di San Giuliano. Sedici lustri di continuità che madre Maria Ignazia Angelini, a Viboldone da 57 anni, ripercorre, parlando a nome delle monache. «Gli ottant’anni della nostra piccola comunità, rispetto agli 800 anni di questo luogo monastico, rappresentano una vera inezia - esordisce -. Quando è arrivata qui, la comunità aveva cinque anni di vita ed era caratterizzata da uno spirito che cercava di interpretare un desiderio di rinascita del monachesimo femminile in Italia avendo attinto le origini della vita cristiana nelle catacombe. Madre Margherita Maria Marchi, attorno a cui si erano raccolte le prime sorelle, si era convertita al cristianesimo da adulta, e la sua provenienza da una famiglia agnostica la metteva in ricerca con un respiro di libertà. Aspirava a una forma di vita monastica altra dai canoni che allora la segnavano, caratterizzata da clausura stretta e levatura di tipo nobiliare, oltre che da una certa tutela clericale. La sete di interpretare la vita delle comunità cristiane delle origini è stata anche ciò che si muoveva nell’aria del movimento monastico pre-conciliare. Viboldone, all’epoca dell’arrivo delle nostre prime sorelle, era un luogo considerato malsano, umido e sottosviluppato, tanto che l’arcivescovo Schuster era molto contrario al fatto che una giovane comunità benedettina femminile s’insediasse proprio qui nella bassa milanese».

Un fatto curioso, se è vero che questo territorio, intessuto di abbazie, è proprio il luogo di origine di tante esperienze monastiche…

«Sì, otto secoli fa era così, ma ottant’anni fa la cinta delle abbazie del Sudmilano erano cimeli abbandonati in una pianura melmosa, ricca di acque e quindi lussureggiante di vegetazione, ma in epoca bellica era in grande situazione di degrado, nonostante il conte Castebarco Albani, proprietario di Viboldone, facesse deboli tentativi di umanizzare il territorio. Insomma, era una zona ben poco accreditata per essere un insediamento di vita monastica femminile. E questo, in un certo senso, ha giocato a nostro favore: c’era nella popolazione del borgo, per lo più salariati e fittabili, una certa perplessità: si attendevano nobili signore, e si son visti arrivare, tra i bombardamenti in piena guerra mondiale, un gruppetto di giovani donne, con valige di cartone. Proprio questo ha contribuito a creare un rapporto bellissimo pur nelle differenze di mentalità: la bassa milanese, terra di migrazioni, era proverbialmente anticlericale. Viboldone era un borgo agricolo molto popolato, e nei rigori della guerra si creò subito un tessuto di relazioni semplici e quotidiane con i salariati. Le monache avevano esperienza infermieristica in ospedali militari, si curarono di creare un’assistenza sanitaria e una sorta di scuola del borgo».

Come si è evoluto poi, nei decenni, il ruolo della comunità monastica?

«Quelli furono i tempi eroici. Poverissimi e irradianti gioia. Oggi il numero di monache è analogo ma l’età media ben più avanzata. Ciò che è cambiato radicalmente, poi, è che a Viboldone oggi ci siamo solo noi: è ridotto quasi a un borgo fantasma. Di certo abbiamo vissuto anni di grande fioritura durante il Concilio Vaticano secondo, un momento generativo di rapporti con la diocesi e con il territorio. C’è stata la costruzione del nuovo monastero, voluto dal cardinal Montini, la ristrutturazione dell’antica casa del priore a foresteria. La comunità, che inizialmente viveva molto appartata, con il Concilio è diventata una presenza significativa nel dialogo monastico italiano: si è rafforzato il rapporto con il monastero di Montserrat, si è creato un rapporto di amicizia con figure come David Turoldo e il liturgista milanese Enrico Cattaneo, collaborazioni tipografiche con l’Università Cattolica».

Insomma, un tempo di fioritura…

«È poi è sopravvenuta, negli anni ‘70, la prova, con le prime separazioni. Alcune sorelle si sono staccate per fondare l’abbazia dell’Isola di San Giulio. Si è creata una certa dialettica interna, nei venti impetuosi che scuotevano tutta la cultura italiana. Abbiamo imparato la difficile arte che san Benedetto insegna: essere comunità in cui molte e diverse, si è uno. Negli anni ’80, con l’avvento al soglio episcopale di Carlo Maria Martini, si è aperta una nuova fase. Soprattutto nei primi anni, veniva qui molto spesso, e il rapporto di amicizia è stato molto intenso e per noi stimolante. Questo ha molto riacceso la vitalità della comunità, sono arrivate nuove sorelle, sono stati anni molto ricchi. Anche la presenza in funzione di cappellano di don Luisito Bianchi ha attirato amici e un’attenzione particolare all’antica abbazia. Si sono iniziati a curare i restauri, anche grazie all’attenzione della Regione e delle fondazioni bancarie. Sono nate collaborazioni con realtà della cultura milanese. Insomma: anni caratterizzati da una grande apertura di orizzonti».

Arriviamo all’ottantesimo anniversario…

«Per noi ottant’anni significa guardare indietro, capire tutti i passaggi, individuare il filo conduttore, ritrovare la tensione dell’origine ed esprimerla in un periodo ecclesiastico e umano in genere che si profila epocale, nel quale anche noi siamo chiamate a tenere alta la gioia del Vangelo che ci raduna».

Ed ecco l’irruzione di quella grande frattura storica che è stata la pandemia. Il Covid vi ha toccato da vicino. Come è cambiata la vita della vostra comunità?

«Abbiamo vissuto quasi tre mesi in totale isolamento. Ci siamo dette che in questo anno è come se ci fosse passato sopra un secolo. Ne usciamo sicuramente più fragili fisicamente: oltre metà della comunità supera gli 80 anni di età. E anche economicamente è stata una difficile congiuntura: il nostro laboratorio di restauro e la tipografia hanno visto azzerarsi le commesse, la foresteria vuota. Nel contempo, abbiamo visto approfondirsi una salda solidarietà tra di noi, abbiamo pregato senza avere più né prete né fedeli alle celebrazioni, ma condividendo il dolore e la supplica di tanti attorno a noi. Credo che rimarrà scolpita in noi la Pasqua 2020: senza riti, ma interiormente condivisa con tutti i colpiti dalla pandemia. Abbiamo vissuto un’esperienza forte: la possibilità di morire, sia come singole che come comunità, attraversata come luogo in cui rinascere alla gratitudine verso tanti che ci sono venuti in aiuto».

Sarebbe una forzatura dire che, in un certo senso, ne siete uscite più forti?

«Direi piuttosto che ne usciamo più motivate, resistenti, per l’esperienza della grazia del Vangelo che ci unisce. È stata un’esperienza indimenticabile pregare insieme, in quella situazione di disagio estremo, i salmi di lamentazione (anche quelli imprecatori!), come se venissero direttamente dal cuore e dal corpo cui mancava il respiro. Vivevamo una passione che non ci isolava, pur chiuse nelle nostre cellette, ma ci faceva comunicare in verità con tutto il dolore del mondo. Ora ci troviamo più deboli, ma ci è stata donata una sorta di tenerezza, la percezione colma di stupore che ciò che conta, l’essenziale, non ci è mai mancato. E la scoperta che le cose veramente necessarie, sono poche».

L’arcivescovo Mario Delpini di recente ha menzionato l’«ostinazione della primavera», che dopo «tanto tempo sprecato a scambiarsi luoghi comuni sul Covid», ripiegati su noi stessi, ci invita «ad alzare lo sguardo, a stupirsi ancora della vita e della bellezza»...

«Esattamente. Lo sguardo dilatato e reso perspicace dallo stupore per la grazia è diventato fondamentale per incontrare l’altro. Proprio questi ultimi fine settimana, con il cessare di certe limitazioni del lockdown, tante persone sono tornate in abbazia, e avevano negli occhi una luce gioiosa, come a dire la voglia di tornare a guardare fuori, di vivere una vita aperta al futuro. Questa vita “potata” ora, forse, torna a germogliare il nuovo».

L’abbazia viveva anche di visite, di turismo a valenza culturale, oltre che religiosa. Quando riprenderà questo flusso?

«Prima del Covid venivano centinaia di persone all’anno. Ora siamo costrette a procedere caute nell’apertura al turismo religioso. Per il momento apriamo solo, su prenotazione, a piccoli gruppi che vengono per pregare e condividere momenti di spiritualità».

A San Giuliano si avvicendano giunte e orientamenti, ma l’abbandono del borgo di Viboldone rimane una ferita che sembra impossibile sanare...

«È veramente un peccato. Sarebbe davvero importante richiamare l’attenzione del territorio e della Città Metropolitana sul fatto che un borgo di vita monastica può essere rivitalizzato, oggi, in base ai protocolli dell’“abitare generativo”, una forma di abitare diverso rispetto a quella della grande metropoli, più centrata sulla relazione, la cura, la sostenibilità. Pensiamo sia il modello che più si confarebbe al genius loci di Viboldone. Dall’attuale amministrazione, grazie anche alla minore sofferenza finanziaria del municipio, ci pare di vedere maggiore sensibilità sul tema. Bisogna veramente che si risvegli l’opinione pubblica attorno a questo bene che è di tutti, da secoli».

Tempi eroici, grande fioritura, prova, apertura di orizzonti, quindi la pandemia. Con la costante di un borgo purtroppo sempre più abbandonato. Queste le fasi attraverso cui mi ha riletto la vostra storia. Vorrebbe condensare un messaggio, un auspicio, per il prossimo periodo storico che la comunità si troverà ad affrontare?

«Ciò che il monastero ha a cuore è radunare persone a scoprire la bellezza di Dio. Per noi celebrare insieme la lectio divina, l’eucaristia, la preghiera entro la quale sono ospitati il dolore e la speranza di fratelli e sorelle che vivono accanto e in tutto il mondo, è un modo di abitare la Storia. Ed è ciò che speriamo di poter continuare a proporre. La comunità cristiana deve sempre avere la prospettiva di muoversi “in uscita”: nel nostro caso, l’uscita è in direzione della profondità, consiste nella riscoperta, insieme, delle radici del senso, del comunicare, del vivere e del morire».

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