Il terzo settore deve farsi i muscoli

Dati Istat sul Terzo settore: 235mila organizzazioni non profit; 681mila dipendenti e oltre 250mila collaboratori; circa 4 milioni e mezzo di persone coinvolte in veste di volontari; 67 i miliardi di euro di valore economico di queste attività (4,3% del Pil): solo una decina d’anni fa il fatturato complessivo si fermava a poco più della metà. Dati sottostimati perché non si può quantificare con precisione il numero di ore e il valore delle stesse, messe a disposizione da quei milioni di italiani che si dedicano al volontariato sociale. Se ogni buona azione fosse pagata... Ma non parliamo solo di “non profit”, l’agire che non cerca un profitto ma la mera soddisfazione di un bisogno. A questo mondo dobbiamo associarne un altro, quello del “low profit”, cioè di quell’economia che non ha nella voce “utile per gli azionisti” la sua ragione primaria.Si pensi, allora, al circuito delle cooperative, e se l’obiezione riguarda il campo d’azione (vanno bene solo per il terziario “relazionale”), si consideri, allora, quelle attive nell’agroalimentare: più di 30 miliardi di euro fatturati, leadership nel vino, latte e formaggi, ortofrutta, allevamento, pesca... Le coop hanno come punto di riferimento lo stipendio dei soci lavoratori, e non l’utile aziendale. Far lavorare la gente, il più possibile, agendo nel libero mercato. Eresia?Ma torniamo al nostro welfare, soprattutto a quello di domani. Partiamo “dalla consapevolezza che l’auspicato dopo-crisi non sarà la riproposizione della situazione ex ante, ma porterà anche alla ridefinizione quali-quantitativa dei valori per i singoli, per le aziende e per la collettività”. Non lo diciamo noi, ma Unicredit Foundation, realtà che non nasce da qualche mensa caritatevole ma da un istituto bancario di primaria importanza. E allora, quel Settore considerato terzo tra Stato e mercato, diventerà fondamentale per sostenere il nuovo welfare, che cambierà pelle perché la società civile organizzata conosce e si fa interprete dei bisogni delle persone molto più dell’“impersonale” settore pubblico. Ma senza alcuno steccato, senza riserve indiane: lo Stato dovrà garantire la cornice d’insieme; il mercato saprà come generare risorse e “know how”. Tutto si tiene assieme. Ma qualcosa, anzi molto deve cambiare. Se diamo per scontato che, a un certo punto, lo statalismo fatalmente declinerà, lasciando spazio ad altre risorse ed energie, anche queste ultime dovranno cambiare pelle rispetto all’oggi. Troppo spesso, infatti, il Terzo settore vive in subordine al settore pubblico. Dipendendo da appalti sempre più striminziti e rarefatti; svolgendo un’attività meramente sostitutiva; non organizzandosi se non come coacervo di buone volontà; limitandosi a fare una cosa senza voler crescere, svilupparsi, cambiare. Ciò crea un’intrinseca debolezza, una situazione quasi di sottomissione: si dipende dalla provvigione pubblica, si attende la carità privata. Ci si accontenta di supplire ai buchi dello Stato (che a volte è tignoso, come quando aumenta l’Iva delle prestazioni sociali dal 4 al 10%); ci si fa sfruttare dalla forza del libero mercato.Quindi vanno messi su i muscoli, prima ancora di avventurarsi da protagonisti in molti settori della vita e dell’economia nazionale. Significa formazione e competenze; significa “vesti” giuridiche adeguate; vuol dire passare dal fare all’intraprendere, dalla mera generosità alla capacità di stare in piedi in modo organizzato, autonomo, moderno. Si spinga il legislatore a trasferire questi principi sempre di più nelle leggi e negli atti amministrativi che ci governano; e si crei pure una rete finanziaria di supporto, una struttura patrimoniale adeguata (anche attraverso unioni, fusioni, superamento di particolarismi e microcosmi), una formazione sempre al passo. Si incentivi la voglia di crescere, di fare di più. La “welfare society” in Italia c’è, il mondo cattolico ne è da sempre un motore, spinto da una benzina potente e regolato dalla dottrina sociale della Chiesa. Ma la forza che questo settore ha, sarà sempre compressa se non parte dalla propria consapevolezza. Sa contribuire al benessere collettivo con maggiori risultati e minori costi, generando buona occupazione; spesso sa far meglio di un welfare statale che d’ora in poi sarà in costante ritirata. Un esempio banale di sottovalutazione? La miriade di associazioni sportive dilettantistiche non sono solo uno strumento per passare il proprio tempo libero: sono anche un efficace modo di promuovere stili di vita più salubri, con meno malanni da curare; sono il volàno di un’economia che spazia dal turismo alla produzione di beni e servizi per chi pratica sport; sono un formidabile catalizzatore sociale, spesso capace di promuovere anche solidarietà e raccolta di fondi. Sono la “caldera” di una coscienza civile che poi chiede un ambiente più pulito e rispettato, strutture ad hoc, una programmazione politica e amministrativa più in sintonia. La marginalità di questo mondo sta solo nelle teste di chi non riesce a valutare il peso dello stesso. E stiamo parlando di sport e tempo libero...È ora che la società italiana si prenda sulle spalle la responsabilità della propria crescita, del proprio benessere. Lo Stato siamo noi, non un colossale apparato che - da struttura di servizio - è diventato il nostro padrone.P.s.: volutamente non è mai stato citato il termine “sussidiarietà”. Quando lo sentono, sono in molti a mettere mano alla pistola catalogatrice, per riflesso condizionato. Azzuffarsi sulle parole fa solo il gioco di chi non ha altro di valido da proporre.

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