Un lettore attento mi segnala che fra le “parole di cucina” elencate nelle scorse puntate ne mancano parecchie di quelle dei suoi ricordi d’infanzia. È vero. Ma è altrettanto vero che l’attenzione di questa rubrichetta è rivolta soprattutto a voci ormai disusate (e irriconoscibili): mentre cüciar, furcheta e curtel, piati e biceri, tuaia e tuaiöi non costituiscono un ostacolo alla comprensione fra generazioni, qualche perplessità per i più giovani può nascere da termini come mesin, pedriöl, basia, casülera ecc. Comunque consapevole dell’incompletezza del mio elenco, penso tuttavia che sia il caso di fermarci qui, e di fare un po’ d’ordine in questo quarantot rimettendo tutto al loro posto: e cioè nella panadura. La panadura, detta anche cardensa, è infatti la ‘credenza’, quell’armadio - spesso formato da un corpo inferiore con antine e da un’alzata a più piani- in cui si conservano non solo gli alimentari (fra questi il pane, da cui deriva il termine panadura), ma anche gli utensili da cucina, il vasellame ecc. Un armadio che contiene pane e farine non può però non attirare l’attenzione di alcuni poco simpatici frequentatori delle nostre cucine, i panaroti, il cui nome -di area settentrionale- tradisce le loro preferenze alimentari. La casalinga moderna li chiama invece con ribrezzo ‘scarafaggi’, ma la loro dieta sostanzialmente non cambia. Cambiato è invece lo strumento per liberarsene: oggi la bomboletta spray, ieri il flit, che è la denominazione popolare ripresa dal marchio di fabbrica di un insetticida che si spruzzava con uno stantuffo a mano collegato a un piccolo serbatoio. Ma torniamo al mobilio. Se la panadura o c ardensa occupa una posizione centrale nella cucina o nella sala da pranzo, il cardensin può stare in qualsiasi angolo della casa senza che il suo ruolo venga sminuito: un armadietto multifunzione e poco ingombrante fa sempre comodo, oggi come ieri. Un mobiletto “specializzato”, ora definitivamente scomparso dalle nostre case, è invece la muscaröla. Adatta a conservare alimenti che non si potevano tenere al chiuso (formaggi, salumi, avanzi di cibo), la ‘moscaiola’ era formata da un telaio in legno e da pareti di velo o rete fine che permettevano una perfetta aerazione e impedivano nel contempo l’entrata a mosche (di qui il nome) e insetti vari. Per tenere lontani altri ospiti non graditi, veniva sospesa in posizione inaccessibile a cani, gatti e topi. Nella stagione calda però, per conservare i cibi la muscaröla non bastava. Prima dell’arrivo, negli anni ’50, di un elettrodomestico subito battezzato alla francese frigidèr, il posto del frigorifero era occupato da un mobile dal nome indigeno di giasiröl. Il giasiröl (da gias, ‘ghiaccio’) era diviso all’interno in due parti, una per riporvi i cibi da conservare e un’altra per il ghiaccio, ed era munito di un rubinetto per far defluire l’acqua quando il ghiaccio si scioglieva. Paragonata agli attuali frigoriferi, anche quelli di classe A++, la ‘ghiacciaia’ li superava alla grande in quanto a risparmio energetico, non richiedendo affatto elettricità. Però ci voleva il ghiaccio, e questo si acquistava dal giasé, un ambulante che passava di casa in casa con un carretto colmo di pesanti blocchi che frantumava a colpi di scalpello. Ma questo ghiaccio da dove veniva? Non certo dai ghiacciai alpini, e men che meno dai Paesi nordici. Con un’espressione di conio recente potremmo anzi dire che si trattava di un prodotto “a chilometri zero”: infatti fino agli anni ’50, nel centro di Lodi, fra via della Costa e l’attuale via Benedetti, sorgeva la società “Ghiaccio - forza - luce” (popolarmente detta “La ghiaccio”), un’azienda sorta nei primi anni del ‘900, che produceva quotidianamente decine di tonnellate di ghiaccio, oltre ad energia elettrica per uso pubblico.
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