IL PUNTO La guerra di Putin affama i poveri del mondo

L’editoriale del direttore de «il Cittadino» Lorenzo Rinaldi

L’ex primo ministro salvato dai soldati e portato al riparo con la famiglia e i più stretti consiglieri in una base militare resta, per ora, l’immagine più forte della rivolta popolare che sta scuotendo lo Sri Lanka. Un paese di 22 milioni di abitanti,con un Pil pro capite di 3.600 dollari nel 2020 (il Pil pro capite Usa, come termine di paragone, è 63.500 dollari), che vive grazie all’agricoltura, a un settore industriale poco sviluppato, a un florido turismo internazionale ed è particolarmente indebitato, prevalentemente con Cina, Giappone e India.

I violenti scontri di piazza in uno stato privo di primo ministro e dunque senza una guida sono originati dalla crisi economica. La pandemia ha drasticamente ridotto le entrate derivanti dal turismo mettendo in ginocchio il paese negli ultimi due anni; a questo va aggiunto il forte incremento dei prezzi di due beni essenziali, come il grano e il petrolio, esposti alla speculazione a seguito dell’attacco della Russia all’Ucraina. Possiamo ragionevolmente affermare che lo Sri Lanka è una delle prime vittime della guerra di Putin. Purtroppo ne arriveranno molte altre, come ha indicato l’Onu, stimando in circa 1,7 miliardi di persone la quota di popolazione mondiale che risentirà in maniera diretta o indiretta della riduzione delle esportazioni di grano da Ucraina e Federazione Russa.

Nel continente africano si contano già oltre 200 milioni di persone esposte direttamente alla crisi alimentare seguita alla guerra in Ucraina, come ha ricordato giovedì a “Radio 24” l’ex ministro dell’agricoltura Maurizio Martina, oggi vicedirettore generale della Fao. Tra le regioni maggiormente a rischio, perché più dipendenti dal grano ucraino e russo, c’è il Maghreb, che si affaccia sul Mediterraneo e dunque vede nell’Italia il primo porto di sbarco per l’emigrazione. Le autorità dell’Egitto, paese che conta 100 milioni di abitanti con un’età media molto bassa (24 anni) e dunque più propensi a spostamenti, hanno affermato che lo stato ad oggi ha riserve di farina solo fino alla prossima estate: pochi mesi.

La guerra di Putin rischia di avere effetti drammatici sul continente africano, con conseguenti migrazioni di massa, perché la riduzione dell’export di grano da Ucraina e Russia aggrava una situazione già critica. La maggior parte dei paesi africani infatti non è autosufficiente dal punto di vista alimentare perché una quota consistente della propria produzione agricola non è finalizzata al mercato interno ma all’esportazione ed è gestita da grandi compagnie internazionali: eredità del colonialismo, a cui le classi dirigenti africane non hanno saputo porre rimedio nel corso degli ultimi decenni.

Da anni è in atto poi un massiccio processo di acquisizione di terre africane da parte di investitori stranieri: gli yuan del boom industriale cinese e i petrol dollari del Medio Oriente vengono investiti per rastrellare campi coltivabili. È il nuovo colonialismo, non più basato sulla forza degli eserciti ma sul predominio del denaro. La conseguenza di questa politica è che i privati proprietari di terre (veri o “soci occulti” degli stati) indirizzano le coltivazioni con l’idea di esportare la materia prima prodotta, affamando ulteriormente la popolazione locale. La Cina, ultima arrivata, in questa attività è purtroppo maestra, ricordando gli imperi europei ottocenteschi e l’aggressività commerciale delle multinazionali Usa del XX secolo.

Vecchi problemi ed emergenze attuali portano dunque a pensare che siano inevitabili nuovi stravolgimenti sociali alle porte dell’Europa, a pochi chilometri dalle coste italiane. È verosimile che già dalla prossima estate il flusso migratorio dall’Africa all’Europa cresca in maniera significativa, spinto dalla crisi alimentare e non controllato (se non addirittura agevolato con fini ricattatori) dalle deboli autorità politiche del Nordafrica. Segnali di tensione sono già tangibili, perché quanto registrato in Asia (Sri Lanka) è facilmente replicabile in Egitto, Libia, Marocco, Algeria: se la pancia è vuota le piazze si riempiono di rabbia, le istituzioni crollano e i porti si aprono. Nel 2011 le “primavere arabe” si manifestarono inizialmente come rivolte popolari per l’impennata del costo dei generi alimentari di base provocata dalla siccità in Russia e Argentina. Oggi il rischio non arriva più dal cielo, ma dai carri armati di Putin. Le conseguenze tuttavia potrebbe essere le stesse.

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