Il lavoro sia pagato per il suo valore

Il Primo Maggio, festa del lavoro. Ma un lavoro che deve essere “giusto, come realizzazione della persona, partecipato, per tutti, come progetto di vita, dignitoso, che non ammala e non uccide. Il lavoro pagato per il suo valore”. Così lo definiscono le tre principali organizzazioni sindacali, in un comunicato emanato proprio in vista di questa festività.Ecco: scrollando i concetti da una certa fuffa generalista, rimane fondamentale rimarcare l’ultimo passaggio. Il lavoro pagato per il suo valore. E perché questo accada, occorre anche che gli stessi sindacati ritrovino il loro Dna originario, quello di organizzazioni di tutela dei lavoratori per il loro salario e le loro condizioni lavorative. Perché non c’è dubbio che gli ultimi quindici anni abbiano portato – nel mondo occidentale – un progressivo deterioramento del valore economico del lavoro prestato. Mentre l’introduzione dell’euro ha proiettato l’Italia nella parità di costo della vita rispetto a realtà ben più ricche. Insomma: stipendi e compensi sempre più bassi, costo della vita progressivamente innalzatosi. È così che “non ce la facciamo più”.Ma tutto ciò non è accaduto per fatalità. L’arrivo della globalizzazione ha dato una colossale mano ad una delle due parti in causa quando si determina il valore del lavoro: a chi paga. Costano troppo gli operai in Italia? Si porta l’azienda in Romania, o in Cina. Non riesco a stare sul mercato? Comprimo il costo del lavoro, pago di meno, trovo sempre qualcuno disposto a farlo a condizioni peggiori, in dieci anni di crisi economica. E a chi debutta nel mondo del lavoro, una mancia sarà più che bastevole. Altrimenti quella è la porta.Non sono opinioni, ma fatti suffragati dall’evidenza delle migliaia di aziende che hanno delocalizzato ovunque; delle decine di migliaia di giovani che ogni anno cercano fortuna e migliori salari all’estero; dal proliferare di forme di pagamento che mascherano retribuzioni slegate sia dal valore del lavoro, sia da condizioni lavorative in teoria considerate inviolabili. È stato assurdo, da parte del governo e su richiesta della Cgil, abolire i voucher; ma andava certo controllato l’utilizzo di uno strumento troppo spesso usato in modo distorto.La palla passerebbe allora nelle mani dei sindacati, che insomma riprendano il loro ruolo di leghe di protezione delle istanze dei lavoratori. Tutti quanti. Peccato che ormai la loro forza sia quasi esaurita, ridotti a tutelare soprattutto pensionati e dipendenti pubblici; mentre un paio di generazioni venivano lasciate in balìa di improbabili “consulenze”, di finte partite Iva, di lavori mascherati da stage, di precarietà a lungo termine. Dov’è stato lo sforzo, nelle contrattazioni collettive e nelle nuove regole, per attenuare e assorbire questo deprecabile fenomeno? E perché opporsi a quel Jobs Act che è stata la prima soluzione legislativa anti-precarietà?Ma come si fa, allora, a rappresentare qualche milione di lavoratori, attuali e potenziali, ognuno dei quali è diventato un’isola senza legami con gli altri? È tempo di ripensarsi, altrimenti ci si riduce a emettere impegnati quanto sterili comunicati stampa. Primo maggio, su coraggio!

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