Ci avevano chiesto un impegno, abbiamo risposto con un impegno scritto: quello di realizzare in un anno e mezzo un vero e proprio programma di governo. All’Europa, la cosa è bastata e tutta la telenovela del “dovete fare qualcosa di fondamentale per la ripresa economica e per la salvaguardia del debito pubblico” – rivolto all’Italia con le buone e pure con le cattive maniere – è finita lì. Per ora.Perché chiaramente quella scritta da Silvio Berlusconi non dovrebbe essere una lettera da libro dei sogni, ma qualcosa che dovrà poi trovare attuazione, in tempi ristretti. Sennò le ire soprattutto tedesche saranno funeste per noi.Ricapitoliamo: quando, quest’estate, l’euro è finito sotto attacco degli investitori, s’è capito rapidamente che la Grecia era l’antipasto, ma la pietanza vera era la Spagna o l’Italia. A Madrid la soluzione della crisi è stata drastica: il premier Zapatero si è fatto da parte rispolverando le urne elettorali per fine anno.Qui, s’è approntata una manovra all’italiana, piena di buoni propositi, di cose da fare tra due o tre anni, di proclami e tanti tentennamenti. I mercati finanziari hanno continuato ad attaccare l’Italia, ancor più convinti che qui non ci sia una mano forte che possa governare la crisi. Una crisi invece fronteggiata dalla Bce (e da Berlino) con un salvagente lanciato ai nostri titoli di Stato. Ma non in cambio di favole: per continuare a salvarci, ci hanno chiesto di muoverci concretamente.Le modalità sono state inusuali, con tanto di ultimatum a presentare proposte vere e sensate entro tre giorni. E dopo 72 ore, ecco la lettera di 17 pagine inviata al “caro Herman” e al “caro Josè Manuel” (i vertici della Ue), con il nuovo programma di governo dell’esecutivo Berlusconi.In sintesi: si sta approntando il decreto Sviluppo, ma occorre reperire soldi e lo si farà vendendo dal prossimo 30 novembre beni di proprietà pubblica. In più si recupereranno fondi strutturali europei per il nostro Mezzogiorno.I soldi permetteranno di mettere in cantiere poche, ma qualificate opere infrastrutturali: addio quindi al costoso e semi-inutile ponte sullo Stretto. Si cercherà di coinvolgere di più i capitali privati con mirate defiscalizzazioni, e di pagarli in tempi certi e con nuove modalità. Si riparla di ridurre la burocrazia, di snellire ed efficientare la pubblica amministrazione, di liofilizzare gli enti pubblici, i parlamentari, la spesa pubblica in generale. Di riformare la giustizia, di liberalizzare questo e quello.Ma non sono stati questi i punti che hanno fatto discutere l’opinione pubblica, non fosse altro perché è da anni che questo governo promette di fare appunto queste cose. Due i propositi più “caldi”: le pensioni e i licenziamenti. A dire la verità, sono due bolle di sapone. Per la previdenza, si proclama che entro il 2026 l’età minima per la pensione di vecchiaia saranno i 67 anni. Il tutto in realtà è già stato approvato: è stato solo un memento ai partner europei per rammentare loro che qui la riforma previdenziale è già stata fatta, e ancor più radicale rispetto a casa loro.Quindi i licenziamenti. In realtà la cosa è più complessa. Ci si impegna a dare una forte migliorata a strutture e programmi scolastici; a cambiare l’attuale situazione di precarizzazione del lavoro giovanile con un notevole giro di vite ai “contratti parasubordinati” che si sono rivelati – più che uno strumento di flessibilità – uno di sfruttamento a basso costo e a zero diritti. Ma si dice anche, nella missiva spedita ai palazzi europei, che si vuole cambiare in sostanza l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.E qui, all’italiana, è scoppiato il finimondo.Oggi la realtà del mondo del lavoro è così disegnata: chi non ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è licenziabile in un amen e senza alcun risarcimento; chi ce l’ha, ma lavora in un’azienda con meno di 15 dipendenti, può essere licenziato per giusta causa o giustificato motivo che, se non sussistono (e lo decide il giudice del lavoro), danno diritto ad un risarcimento di tot mensilità di stipendio. A questi si vuole equiparare chi lavora in aziende con più di 15 dipendenti, che l’art. 18 protegge in caso di ingiusto licenziamento con il reintegro lavorativo.In verità l’art. 18 è più un totem che altro. In verità, alle aziende medio-grandi al giorno d’oggi premerebbe di più mantenere l’attuale “flessibilità” in entrata, che una maggiore in uscita. E comunque si associa una maggiore licenziabilità con un aumento degli ammortizzatori sociali per chi perde il posto di lavoro.La vera novità, quella a cui punta il Governo, quella che i sindacati combatteranno fino all’ultimo, è il proposito di utilizzare una norma di legge già in vigore, che permette alla pubblica amministrazione di “scremare” i propri dipendenti mettendoli per due anni ad indennità ridotta all’80% dello stipendio. Quindi, licenziamento. Una norma già votata in Parlamento ma mai utilizzata. Con una piccola postilla: non si parla più di indennità a carico dell’ente datore di lavoro, ma di cassa integrazione a carico dell’Inps: contabilmente, stipendi che escono fuori dalla spesa pubblica. E un marchingegno che permetterebbe l’addio definitivo al “posto fisso pubblico”.Se tutto ciò sarà nuovo programma di governo, o libro dei sogni, lo scopriremo già nelle prossime settimane.
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