Il debito e il tramonto della Borsa

La Borsa italiana è sempre più vuota. Uno dei simboli di ogni economia, uno dei motori finanziari dello sviluppo economico del Novecento, ha debuttato nel nuovo secolo con il fiato sempre più corto. E la gigantesca crisi economico-finanziaria iniziata nel 2008 sembra averla relegata nelle retrovie.Basta scorrere il listino del mercato azionario di questi giorni. Ci sono solo dodici società la cui capitalizzazione in Borsa supera la soglia dei 10 miliardi di euro, soglia non certo incredibile nel panorama mondiale.Tra queste, ci sono due banche, cinque aziende controllate dallo Stato e solo cinque spa con azionisti totalmente privati (Generali e Telecom, mentre Fiat, Atlantia e Luxottica hanno una capitalizzazione a cavallo dei 10 miliardi, quindi sono a rischio di scomparire da questa particolare classifica). Fiat poi sta tentando in tutti i modi di spostare centro direzionale e orizzonte finanziario negli Stati Uniti, e Luxottica è quotata a New York.Ha quindi fatto scalpore nelle scorse settimane la decisione del gruppo Prada di quotarsi non a Milano bensì ad Hong Kong, cioè di aprirsi ai ben più interessanti e pesanti capitali asiatici, piuttosto che all’asfittica Borsetta milanese.Una Borsa piccina, quella italiana. Perché i capitali – nazionali e stranieri – la snobbano. Quelli esteri non trovano grandi occasioni di investimenti: certi giganteschi fondi comuni nemmeno considerano alcuni titoli che svernano nel listino con capitalizzazioni da 5, 7, 12 milioni (milioni!) di euro.E sono molti: roba da aziendina familiare di provincia, non da società appetibile ai denari mondiali.Altra “pecca” del nostro capitalismo è la scarsa scalabilità dei titoli, che non favorisce la speculazione sugli stessi e quindi i guadagni sul prezzo delle azioni, perché da tempo nessuno considera molto quelli da dividendi distribuiti agli azionisti.I risparmiatori italiani, poi, si sono stufati da tempo di fare i protagonisti del “parco buoi”, come li avevano ingenerosamente classificati gli antichi broker di Piazza Affari. Hanno capito che quello in Borsa non è un investimento ma una scommessa, un giocare alla roulette più che un razionale modo di far fruttare i propri risparmi. E i risparmi di una vita non si giocano alla roulette.Risultato: le aziende presenti sul listino della Borsa Valori di Milano valgono attualmente il 28% del Pil italiano, mentre il valore della Borsa londinese è del 135% del Pil britannico, e il Nyse vale il 118% di quello americano. Pure la Borsa spagnola e brasiliana “pesano” di più sulle rispettive economie.Insomma le medio-grandi aziende italiane o si autofinanziano o i soldi li chiedono alle banche o, chi può, ai risparmiatori tramite prestiti obbligazionari. Manca il circuito virtuoso dell’investimento azionario che, se fatto con logiche giuste, è uno dei motori dello sviluppo economico.E tra le pecorelle da tosare (leggi piccoli risparmiatori) e gli squali della speculazione non si sono mai inseriti veramente né i fondi comuni – spesso inefficaci e costosi – né soprattutto i fondi pensione, la famosa “seconda gamba” della previdenza che doveva dirottare liquidazione e risparmi in strumenti di risparmio di lunga durata.I risparmiatori anche qui hanno preferito mantenere il Tfr in azienda, mentre molti lavoratori – soprattutto i più giovani – fanno fatica già a pagare i contributi minimi obbligatori, figuriamoci la previdenza complementare. Un trattamento fiscale non entusiasmante ha poi frenato pure questo possibile strumento di sviluppo della Borsa italiana.Infine l’enorme mole del debito pubblico italiano ha assorbito sempre più non solo i quattro euro dei singoli risparmiatori, ma pure i grandi capitali di imprese e finanziarie – italiane ed estere – che, dopo le scottature degli anni passati, vogliono solo sicurezza e un piccolo guadagno garantito.Meglio un uovo oggi che il disegno di una gallina domani.

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