Il bottino dell’eccellenza italiana

È possibile che alcuni mali del nostro Paese siano venuti alla luce con la crisi che, da qualche anno ormai, attanaglia l’Occidente, ma non lascia indenne nessuna comunità dell’intero Pianeta. È altresì possibile che la crisi abbia esacerbato alcuni processi che già da anni strisciavano latenti.Mi riferisco, per l’Italia, a quella triste, quanto deleteria abitudine, ormai fattasi prassi, di farsi scappare di mano un patrimonio diversificato che ha dato per anni nome e ossatura all’economia del Paese.Qualche parola su due piaghe che paiono sempre più colpire e dilagare sulla nostra Penisola: la delocalizzazione e la svendita di nomi che hanno rappresentato nei decenni l’italianità all’estero.Il numero dei settori d’eccellenza sul territorio nazionale non è irrisorio. Basta andare a ritroso di pochissimi bottinodell’eccellenzaitalianadecenni e sotto gli occhi tornano a sfilare molti grandi nomi che hanno formato una buona fetta della nostra storia e che sono stati radiosi esempi di ingegno, raffinatezza, gusto, precisione, stile, qualità, del made in Italy, tout court: Fiat, Alfa Romeo, Lancia, Richard Ginori, ma anche Motta, Alemagna, Cova…C’è oggi ancora qualcosa di veramente “made in Italy” o piuttosto tutto, ma proprio tutto, non è “made in China, Taiwan , ecc”, pur sapendo purtroppo cosa sta, a livello sociale ed etico, dietro questa dicitura?La lista dei nostri marchi persi è densa e si fatica a tenere il conto di tutto quanto è andato alla deriva. Alcuni, pur continuando l’ attività per cui erano nati, hanno perso il nome d’origine e il più delle volte sono finiti nelle mani di grandi multinazionali straniere. Vocaboli quali take-over, merger, joint-venture, buy-out hanno portato, se non licenziamenti o cassa integrazione, quanto meno scompiglio e smarrimento in tanti settori produttivi.Operazioni assurde di questo tipo lasciano l’ amaro in bocca e parecchio livore in molti italiani che faticano a metabolizzarle, a farsene una ragione, perché è evidente che un passaggio così repentino ed irreversibile non può passare indolore. Per giri e raggiri truffaldini, per necessità di mercato, ansia di profitti, investimenti sbagliati, speculazioni, ma anche per leggerezza, inesistente lungimiranza, per flebile speranza nel futuro, per meschini giochi di potere si è permesso che i nostri nomi finissero nel grande calderone delle multinazionali, in mano a stranieri che nulla sanno della storia umana, sociale, identitaria che ha dato loro origine e li ha connotati. Il fenomeno, nato dapprima in sordina, ha avuto poi un’escalation su tutto il territorio nazionale. Il risultato ha portato al proliferare di punti vendita e di catene internazionali ormai riconoscibili in qualunque stato del mondo ci si rechi. Tutti anonimi, senz’anima, senza identità. E i nostri cari marchi italiani, dove sono finiti? Chi li ha buttati nell’abisso dell’oblio?Chi ha avuto la fortuna di studiare, lavorare, vivere a Milano soltanto pochissimi anni fa ricorderà, fra i tanti angoli affascinanti della città, anche quello del “Motta”, fra Via Vittorio Emanuele e l’ingresso alla Galleria. Una pasticceria-tavola calda con leccornie solo italiane, che teneva alto il nome della città e del Paese. Giovani commesse in eleganti uniformi servivano con garbo e grazia, in un’atmosfera calda e piacevole. Come quel punto tanti altri i luoghi di ritrovo e di aggregazione, non ultimi i caffè e i bar, socialmente così importanti.In modo quasi repentino, uno dopo l’altro sono scomparsi e il nuovo li ha sostituiti. Locali dai nomi stranieri, punti fast-food portati dalla globalizzazione, catene di multinazionali hanno fagocitato i tanti ed antichi luoghi del cuore, lasciando vuoto e costernazione.Dice Aldo Cazzullo sul Corriere che “stiamo passando l’estate a disquisire sui motivi per cui i marchi italiani passano ai francesi…”. Mi sento di replicare: “Per fortuna si disquisisce!”. Sarebbe forse più corretto tacere nell’indifferenza? I giochi sono sempre fatti dall’alto e l’opinione, spesso sensata, della gente non fa testo, ma perché non esprimersi, perché non manifestare il proprio dissenso?

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