I veri Maestri non danno i numeri Georges-Louis Leclerc de Buffon, naturalista francese del ‘700, a chi gli chiedeva il segreto del suo genio, non si stancava mai di rispondere: «Per vent’anni sono stato dodici ore al giorno seduto alla scrivania». Se volessi interpretare queste sue parole, allora dovrei dire che se un ragazzo vuole affermarsi nella vita, deve dare allo studio il tempo che si merita. Certo non intendo con questo dire che deve stare piegato sulla scrivania per dodici ore al giorno, lo fece Leopardi tanto da ingobbirsi e da diventare poeta immortale. I miei ragazzi rischiano solo di ingobbirsi, lasciamo stare il resto. Ciò che intendo dire è che alla fine di un anno scolastico di solito si tirano le somme e attraverso un processo di feedback si valuta il percorso compiuto. E siamo al punto centrale dell’argomento: la valutazione. Un passaggio impegnativo e delicato per tutti. Per i docenti chiamati a un compito che mette a dura prova la propria professionalità; per gli studenti che per natura sono portati a mettere in discussione l’operato dei docenti e per i genitori che spesso non condividono la conclusione a cui arriva il docente, mettendo in dubbio persino la sua professionalità. La scuola è fatta di processi che vanno da quelli propri di apprendimento a quelli educativi e che hanno, nel grado di educazione raggiunto, il massimo livello di valutazione della personalità di uno studente. Ci sono dei distinguo e questo nessuno lo può ignorare. Valutare un bambino delle elementari non è come valutare uno studente delle superiori, maggiorenne, prossimo alla maturità. Processi di vita diversi richiedono processi di valutazione altrettanto differenti. Ma la conclusione di un percorso non può fare a meno di un giudizio, di un voto, di una misurazione. Si chiami pure come si vuole, ma valutare l’operato di un bambino, di un adolescente, di un giovane impegnato negli studi rientra nelle competenze specifiche di un insegnante che proprio in queste occasioni deve dimostrare quanto sia bravo, quanto rispettoso sia dei processi di crescita dei propri allievi. Il voto rappresenta un passaggio determinante nel rapporto scolastico. Possiamo forse immaginare una scuola senza voti? Uno scrutinio senza una valutazione? Impossibile! La scuola non è un’osteria dove incontrarsi da buon temponi, uniti attorno al tavolo, al grido di “volemose bene”. Non esiste il voto unico uguale per tutti. Esiste, invece, una scala oggettiva che divide nel concreto chi si impegna di più da quelli che si impegnano di meno. Si può forse ignorare che i ragazzi sono diversi gli uni dagli altri anche nei risultati delle loro fatiche? Credo proprio di no. Probabilmente è dato agli insegnanti il modo di trovare quella particolare delicatezza necessaria a far capire l’esistenza di certe differenze, evitando di ricorrere a “minacce” di bocciatura, a intimidire con voti da spauracchio, a giudicare la persona, a emettere sentenze. Impegnarsi in una sana competizione non ha mai fatto male a nessuno. Fatte salve le inopportune esagerazioni che non fanno parte della “paideia”, ritengo che non può mai esistere una scuola senza voti, una scuola senza valutazioni, una scuola senza esercitazioni, una scuola, in fin dei conti, senza “Maestri”. Ciò che invece mi sento di affermare è che i docenti non devono mai dimenticare che sono prima di tutto dei “maestri di vita”, che oltre il voto ci sono processi di responsabilità da inculcare, percorsi etici da proporre, autostima da promuovere, rispetto da richiedere e da dare. Perché questa è la vita. Senza trappole traumatizzanti da architettare, senza strategie ingannatorie da promuovere, sarebbe meglio che i docenti affidassero la voglia di “sapienza” dei ragazzi, ricorrendo semplicemente a descrivere la quotidianità della vita. Perché piccoli o grandi che siano, è di questo che hanno bisogno i ragazzi. Promuovere è soprattutto preparare l’allievo a gestire l’esistente, a coordinarsi con il prossimo, a utilizzare e valorizzare le risorse disponibili, a rendersi responsabile delle proprie azioni. Nella scuola, come nella vita, non può trovare spazio la cultura del pretendere senza nulla aver dato. Dobbiamo educare i ragazzi sin da piccoli a tenere sempre ben saldi i piedi per terra. Li prepareremmo meglio se solo insegnassimo loro che la vita non è fatta di magiche elargizioni, ma che tutto può essere fatto rientrare in una sana competizione. Come nello sport l’atleta nel salto in alto aspira a spostare l’asticella sempre più in alto, così nella scuola l’allievo deve aspirare a ottenere voti sempre più convincenti con caparbietà, contando sulle proprie forze, con durezza non d’animo, ma di cervello. Non si governa il proprio cammino guardando all’ingiù, curvo a grattare la terra come un pollo ruspante. Meglio sarebbe guardare all’insù anche rischiando di cadere. Lo ha fatto Talete che aveva il vizio di camminare guardando il cielo, finendo, un bel giorno, in una buca piena d’acqua e suscitando l’ilarità dei molti presenti alla scena. Ma lui sapeva dove andare, al contrario di tanti che si trascinano senza meta. Come pure è pia illusione far credere ai ragazzi, sin dalle elementari, che il mondo cambia stando seduti sulla sedia senza alzarsi e contribuire a cambiarlo. Queste convinzioni, va detto, non fanno parte dei processi di formazione. Il mondo non è dei “tronisti” che fanno comparsate nell’effimero, non è dei furbi anche se questi vengono premiati, non è di quelli che scrivono “squola” con la “q”, anche se qualcuno di questi siede in Parlamento. Educhiamo i ragazzi a scoprire il gusto della ricerca e valutiamoli per quello che riescono a dare. Chi più, chi meno, ma tutti contribuiscono a dare di sé l’immagine di chi si impegna per prepararsi ognuno il proprio cammino. Alla domanda «che cosa devono apprendere i buoni ragazzi?» Aristippo di Cirene rispose: «Ciò che gioverà loro quando siano divenuti uomini». Ecco. Credo che in queste poche parole sia racchiuso un intero cammino. Un cammino a volte accidentato, ma ricco di opportunità; a volte complicato, ma carico di soddisfazioni; talvolta rischioso, ma sorprendente. Occorre insegnare ai ragazzi ad uscire dalla prigione della meschinità quotidiana, a cercare una meta per superare debolezza e inerzia. I ragazzi, è bene ricordarlo, non sono nati stanchi.
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