I “migliori” capitali

stranieri

Ah, les italiens… E non diversamente sospirano i tedeschi, quando pensano alla nostra “capacità” di barcamenarci negli affari. Nostri. E un esempio preclaro è dato dai famosi “investimenti esteri”: quelli che tanto sospiriamo, quelli che spesso rifiutiamo. O meglio: desideriamo ardentemente qualche cavaliere bianco straniero, quando si tratta di rifilargli il pacco. Vedi l’ultimo esempio di Alitalia, che abbiamo tentato dapprima di sposare ai francesi di Air France, poi – riuscendoci – agli arabi di Etihad. Ora stiamo cercando di circuire i tedeschi di Lufthansa. Inutile dire che si tratta di un’azienda in stato fallimentare, nel cui capitale sociale nessun italiano metterebbe un solo euro. Per contro, ci inalberiamo quando i capitali stranieri vengono ad acquistare i gioielli di famiglia, seppur pagati a caro prezzo. Ma non è il prezzo ad indignarci, quanto appunto che pezzi del nostro tesoro finiscano in mani foreste. La moda, l’agroalimentare, le telecomunicazioni, le banche: chiaramente, chi viene ad investire qui cerca di accaparrarsi una torta golosa piuttosto che acquistare il Colosseo.

Così come noi diventiamo abili imprenditori quando, andando a fare shopping all’estero, cerchiamo di creare uno dei più grandi poli autostradali o cantieristici del mondo (Atlantia con la spagnola Abertis; Fincantieri con le navi francesi di Stx le notizie più fresche). In questo caso la difesa della nazionalità non vale più, si torna all’antico: capitolo quinto, chi ha i soldi ha vinto.

Non è solo un tic comunicativo. Ci sono diverse proposte per mettere argini alle manone altrui quando tentano di intrufolarsi dentro i gangli “sensibili” della nostra economia. Già, ma quali sono i settori strategici da difendere e di cui tutelare l’italianità?

Le banche, certo. Ma non sempre. Se comprano quelle decotte, allora va bene. L’energia (Eni ed Enel) con lo Stato a detenere la cosiddetta golden share: tutti possono diventare azionisti, ma il controllo sta saldamente a Roma. Gli aerei? Uhm, non lo fa nessuno. Né si riesce a capire perché dovrebbero essere strategici i treni o le poste o il latte.

In realtà spesso dietro alla parola strategico si nascondono ben altri discorsi: valutazioni politico-elettorali, situazioni regionalistiche, capacità mediatica di essere valutati come fondamentali (un volo aereo ne ha più di un rubinetto), questioni storiche.

Non pensiamo che il protezionismo sia un difetto solo italiano. I francesi considerano strategiche pure le aziende di sciarpe: tutto ciò che è “made in France” per loro lo è. E pure i tedeschi sanno fare barricate alte così per difendere i loro campioni nazionali: non hanno permesso all’americana Gm di liberarsi delle fabbriche tedesche della Opel finché la stessa Opel non è arrivata a perdere un miliardo di euro all’anno. Ma tutti i colossi tedeschi sono in salde mani tedesche.

Ma lì ci sono pure imprenditori capaci e investitori attenti; qui, si è sempre alla caccia dell’acquirente cui rifilare qualsiasi cosa…

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