I giovani, la voglia e il coraggio

“Noi, il nostro dovere lo stiamo facendo. Ora tocca a voi”. L’appello lo ha lanciato il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, alla classe imprenditoriale italiana. Un forte stimolo a investire, a intraprendere, a sfidare i mercati con nuove idee, nuovi prodotti: la ripresa economica passa da qui, non si rimette certo in moto con un decreto legge. È passato un anno da quando l’Italia è piombata nella fase più acuta di una crisi che ormai festeggia le cinque candeline. Un anno da montagne russe: è cambiato molto, a livello politico, amministrativo ed economico. L’esecutivo “tecnico” guidato da Mario Monti ha fatto tutti i compiti a casa che le condizioni economiche - e i partner europei - hanno preteso. Manca all’appello ancora la politica, chiamata a cambiare l’architettura istituzionale italiana e le regole elettorali.

Ma fondamentalmente manca l’impulso che può dare la società italiana, perché è da qui che si riparte. Nessuna riforma, nessuna legge creerà quelle condizioni di nuova ricchezza che portano con sé posti di lavoro e una migliore situazione sociale.

Un appello che in realtà è rivolto a una parte dell’imprenditoria italiana, perché c’è una bella fetta di essa che non ha certo aspettato le parole ministeriali per darsi da fare. Quegli imprenditori che - valutata la situazione problematica del mercato interno - hanno spinto l’acceleratore sulle esportazioni, cercando nuovi mercati, implementando quelli già conquistati, creando o ampliando reti commerciali, esibendo nuovi prodotti o servizi.

Scarpe e accessori, vestiti e vino, meccanica e servizi bancari, prodotti farmaceutici e pneumatici: è lungo l’elenco di aziende (solitamente di medie dimensioni) che fanno ottimi fatturati e conseguenti utili con l’export. Sono soprattutto realtà del Nordest, ma anche emiliane, lombarde, toscane. C’è poi il colosso Eni che nel settore petrolifero sta diventando un gigante mondiale, e c’è una Fiat la quale è proprietaria del marchio Chrysler che sta dando notevoli soddisfazioni in tutti i sensi.

Insomma, è l’Italia che va, riecheggiando una canzone di qualche anno fa. Ad andare molto meno è quel pezzo di economia legato giocoforza al mercato italiano, molto più depresso di quanto le statistiche dicano. È qui che fioccano chiusure di stabilimenti, riduzione di personale (la morìa di posti di lavoro è continua), cassa integrazione, mancate assunzioni.

Allora, perché chiedere a questi imprenditori di investire in simili condizioni? Beh, la risposta più ovvia è che Fornero non poteva certo lanciare un appello che li invitasse alla fuga. Ma va soprattutto combattuta una certa aria da ritirata, la minor voglia di mettere a repentaglio il patrimonio acquisito, la maggior propensione a fare soldi con qualche investimento finanziario che “sporcandosi le mani” in ditta. Quando la situazione è critica, può invece essere eccellente investire: si trovano infrastrutture a costo più basso, si possono acquistare aziende a prezzi di saldo, macchinari con forti sconti e altro ancora. Voglia e coraggio, insomma.

Ma questo è un appello lanciato a chi già ora sta facendo impresa. Il vero problema sono le nuove generazioni, spaesate da questa congiuntura economica che invoglia a mettersi al riparo dalla tempesta, più che ad affrontarla a viso aperto. Le banche non finanziano nulla, soprattutto le start up cioè chi cerca di sfondare partendo da zero. Il mercato non appare per nulla accogliente. Ma soprattutto sembra un po’ mancare lo spirito giusto.

E qui bisognerebbe fare un passo indietro, che ricoinvolge Fornero&co. Abbiamo una scuola splendida produttrice di diplomi e lauree. Dalle università americane, giapponesi, tedesche, cinesi escono idee imprenditoriali e innovazione. Da noi, disoccupati o sottoccupati. In Italia, a fronte di qualche università che interagisce con l’economia, ce ne sono decine ormai diventate un parcheggio di giovani con poche speranze e possibilità. Quando, recentemente, è emerso il colossale numero dei fuoricorso nei nostri atenei, ne abbiamo avuto matematica conferma.

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