I cinesi comprano per guadagnare

Se un tempo c’erano i petrodollari arabi (e ci sono ancora), ora vanno di moda i renmibi cinesi, facilmente convertiti in dollari ed euro per acquistare attività e aziende occidentali. Ultima, in ordine di tempo e di clamore, il Milan venduto dalla Fininvest. I vecchi miliardari nostrani cedono i loro “giocattoli” ad investitori dell’Estremo oriente che nessuno di noi conosce. Attenzione però: i cinesi non sono gli sceicchi arabi. Affermazione lapalissiana, ma non perfettamente compresa da chi invoca o sospira i soldi cinesi per rilevare un’acciaieria o una squadra di calcio. Anzitutto i cinesi sono un popolo di commercianti da quando noi abitavamo ancora sulle palafitte. Conoscono perfettamente il valore del denaro e, nonostante lo pseudo-comunismo di Stato, del profitto. Non vengono per farsi belli, per non sapere come spendere i loro troppi denari, per divertirsi allo stadio; ma per guadagnare. Lo fanno da sempre, con una spietatezza figlia del loro credo confuciano, secondo il quale non è importante il colore del gatto, ma che pigli il topo.

Quindi investono dopo trattative sfinenti e strappando le migliori condizioni possibili, lasciano modalità e manager locali o comunque quelli migliori appunto per arrivare al profitto, si fanno vedere poco o nulla (ma sentire sì): importanti sono solo i risultati.

Lo stile s’era visto già in occasione del primo loro grande debutto nell’arena occidentale: acquistarono la Volvo dagli americani della Ford (che non sapevano che farne) per una cifra irrisoria. Nella sua pancia, la Volvo aveva un know how rodato, un nome conosciuto e soprattutto migliaia di preziosissimi brevetti che valevano mille volte più del loro prezzo d’acquisto. I cinesi hanno lasciato tutto com’era, facendo solo chiarezza e dedicandosi a Volvo non come all’ultima provincia dell’Impero: ora la casa automobilistica “svedese” va bene e macina profitti.

Ecco, questo è il loro stile.

Dietro, hanno uno Stato-imprenditore che non lesina mezzi economici per sostenere i propri capitani di ventura. In questi anni in cui la Cina s’è trasformata nella fabbrica del mondo, sotto la Muraglia sono confluiti migliaia di miliardi di dollari di profitti che ora vogliono e devono essere reinvestiti laddove questi possano essere fruttiferi: da noi.

Ma non dimentichiamoci che quella cinese non è né un’economia “aperta”, né libera. Dietro agli improbabili nomi di miliardari locali, c’è quasi sempre il Partito, lo Stato. Una cosa di cui occorre fare conto perché ha implicazioni ben più ampie dell’acquisto del Milan (oggi) o dell’Inter (poche settimane fa).

Quando ad esempio i cinesi fanno shopping di aziende di telecomunicazioni o di informatica americane, Washington si arroga il diritto di mettere il veto alla compravendita se dentro quelle aziende sussistano situazioni che mettano i cinesi in condizioni di “inserirsi troppo” nella sicurezza o nel sistema americano. D’altronde non puoi far circolare le tue portaerei nel Mare Cinese meridionale con i missili rivolti verso Pechino, e nel contempo permettere che il tuo “avversario” acquisti sistemi di origliamento satellitari a casa tua…

Noi, invece,siamo ancora alla fase del “venite qui per favore”. Bene, anche noi siamo pragmatici e già dal tempo del post palafitte riconosciamo che “pecunia non olet”.

Anche quella di Gheddafi, negli anni Settanta, non puzzava. Poi arrivavano all’Avvocato delle telefonate del dittatore libico che invocava il licenziamento di un alto dirigente Fiat in quanto “ebreo”. Perché, alla fine, i padroni – seppur da lontano, seppur per interposta persona – comandano. Qui come lì.

© RIPRODUZIONE RISERVATA