I centomila che lasciano la scuola

Due sono le maggiori preoccupazioni che ultimamente accompagnano la ministra Maria Grazia Carrozza e che dovrebbero far riflette tutti coloro che hanno a cuore le sorti della nostra scuola: la dispersione scolastica e gli esiti delle prove Invalsi. Se preoccupanti appaiono i recenti dati resi noti dal ministero sulla dispersione, negativi risultano essere, ancora in parecchie scuole, gli esiti delle prove Invalsi. Oggetto di una particolare lettura da parte degli addetti ai lavori appare anche un altro dato da cui emerge una preoccupante linea di demarcazione geografica tra scuola e scuola. Le scuole del nord pare avere un passo diverso da quelle del sud. Che si parli di dispersione o di prove Invalsi in Italiano e Matematica, un fatto rimane certo ovvero le scuole di alcune regioni meridionali sembrano essere imbrigliate in una vecchia logica che le vuole bloccate in un pericoloso immobilismo culturale. Sembra quasi che facciano fatica ad uscire dall’angolo in cui purtroppo si ritrovano. Nè potrebbe arrecare sollievo la notizia diramata dall’Isfol secondo cui l’Italia è ultima in classifica tra i 24 Paesi Ocse in competenze alfabetiche (siamo ciucci in Italiano) e penultima in competenze matematiche (facciamo male i conti). In pratica una preoccupante percentuale di alfabetizzati, ancora oggi, fa fatica a «leggere, scrivere e far di conto». E siamo nel 2013! Non di meno l’abbandono scolastico risulta essere in crescita in maniera esponenziale. Sono tantissimi, infatti, i ragazzi che lasciano la scuola anche in età di obbligo per andare a perdersi nel porto delle nebbie dove non si sa nemmeno dove vanno o cosa fanno. E se in tema di valutazione tra scuole del nord e scuole del sud le risposte da dare possono essere realisticamente trovate in un più deciso investimento di risorse economiche e strumentali, di ben altra natura sono le risposte da cercare in tema di abbandono scolastico. Sono due problemi che ridimensionano lo stato di salute della nostra scuola ancora una volta divisa da uno spartiacque socialmente e scolasticamente allarmante. Se centomila ragazzi censiti nelle regioni meridionali abbandonano gli studi in età scolare, questo vuol dire che le risposte sinora trovate non sono risolutive per un fenomeno che prima o poi farà sentire i suoi effetti come ricaduta sul piano sociale. Una domanda, allora, sorge spontanea: ma dove vanno a “cazzeggiare” questi centomila ragazzi? Cosa fa tutto il giorno questo esercito di intelligenze emotivamente sbandate, ma realisticamente esistente fuori dalla vita scolastica? Sono domande legittime che presuppongono l’esistenza di un vivere quotidiano alternativo alla scuola preferito volutamente da tanti ragazzi fortunosamente impegnati in attività fuori controllo. Non stiamo parlando di bigiate o di assenze più o meno prolungate che pure fanno parte della storia scolastica di ciascuno di noi, ma di ragazzi fantasma che sia pur esistenti all’anagrafe non esistono nelle scuole perché fisicamente assenti nelle aule scolastiche. Parlo di ragazzi senza né arte né parte, di iscrizioni finite in un faldone senza storia, di giovani talvolta caduti nella rete dalle maglie strette ben gestite da mani ignote che prospettano in maniera allettante la svolta nella vita. Quella svolta tanto attesta quanto persistentemente presentata come un’occasione quasi unica e comunque da non lasciarsi scappare per reinventarsi un futuro. E questo si sa quanta attrattiva ha sugli adolescenti. Specialmente in certe sacche urbane delle grandi città dove le attività illegali gestite dalla malavita organizzata offrono attraenti soluzioni per una più facile scalata da porre a contrasto di quel degrado sociale ritenuto, a torto o a ragione la causa prima del calo di desiderio di scuola. Per di più, in questo caso, la scuola con le sue regole viene considerata un impiccio, un ostacolo che si frappone tra l’assicurare un grado di istruzione e il desiderio di crescita offerto, invece, dall’altra scuola, quella della strada che per certi versi si rivela molto più pratica se non addirittura ritenuta più rispondente alle prospettive della scalata sociale. Il problema però sta proprio qui. Sono tanti i ragazzi che presi da certe pericolose ambizioni si presentano al confronto sociale con meno scrupoli e per certi versi sono persino disposti ad abbracciare comportamenti devianti sia sul piano delle regole che sul piano dei valori. In questo caso la scuola è vista come una illegittima ingiunzione, come un’intrusa lontana da una diffusa cultura formativa, ma vicina a una cultura genitoriale più attenta alle esigenze particolari proprie di una famiglia stretta da una morsa che talvolta non lascia scelte. E qui il problema si allarga a dismisura. La famiglia è la prima e principale ispiratrice dei piani decisionali formativi. I ragazzi non vanno mai lasciati soli a scegliere giacché hanno bisogno dei genitori in grado di interpretare correttamente il profondo desiderio di crescere. Ma in certe situazioni così non è. I genitori diventano complici delle stesse devianze civiche. Norme etiche e regole di comportamento sono viste non coerenti con lo status sociale e relazionale del nucleo famigliare di appartenenza. L’abbandono scolastico diventa così espressione conforme alla cultura di quartiere troppo spesso carente di luoghi di aggregazione, mentre la scuola diventa la sola risposta. Non si può crescere abbandonando la scuola ovvero abbandonando quell’unica occasione che fa di un ragazzo un progetto di vita. Da adolescente quando esprimevo ai miei genitori il desiderio di non voler andare più a scuola, mi veniva detto che la scuola mi avrebbe dato l’opportunità di non fare il contadino (che era poi il mestiere di mio padre). Mi ricordavano sempre che la terra, quantunque generosa, rendeva dura la vita fino a toccare il grado di sussistenza. In sostanza mi facevano capire che la scuola era da preferire alla terra e questo anche in nome di quella loro curiosità di sapere cosa in fondo potevo diventare se avessi continuato a studiare. Hanno investito su di me e hanno avuto ragione loro. «Col tempo, – per dirla come Cartesio – ho capito quanto fosse importante leggere e studiare». Oggi c’è un preside in più in terra lodigiana e un contadino di meno in terra molfettese.

© RIPRODUZIONE RISERVATA