I carcerati, i cattolici, i radicali

Succede una cosa singolare da qualche mese nella casa circondariale di Lodi. I volontari di Radio Maria, attraverso il cappellano, hanno regalato a tutti i detenuti una radiolina, la quale però essendo di modesta fattura, anche a spingere fino in fondo la manopolina non arriva ai 107.9 di Radio Maria ma si blocca a 107.6, cioè a Radio Radicale. E così tutti sanno della manifestazione che i radicali intendono svolgere il giorno stesso di Natale allorquando alle ore 10.00 partirà da San Pietro una marcia per arrivare davanti alla sede del governo. Dopo il messaggio del Presidente della Repubblica Napolitano e dopo quanto affermato dalla Corte Costituzionale non ci sono più alibi per non affrontare l’attuale situazione di sovraffollamento e di giustizia “irragionevolmente” lunga che sembra essere una seconda condanna. Si parte da San Pietro non solo perché Papa Francesco ha pronunciato frasi forti incontrando i cappellani delle persone carcerate, più che delle carceri come disse al suo esordio, ma soprattutto perché all’inizio del suo mandato ha fatto due gesti concreti: ha abolito l’ergastolo all’interno dello Stato Vaticano e ha introdotto il reato di tortura, cosa che in Italia non si è fatta a distanza di vent’anni dalla firma della convenzione ONU, come si evince dal comunicato stampa. Anche qualche detenuto di Lodi ha espresso il desiderio di scrivere al Papa avendo avuto l’impressione che non si sia ancora pronunciato sui temi dell’indulto e dell’amnistia, come fece invece Giovanni Paolo II, senza sapere che Papa Francesco ha espresso la volontà di non interferire direttamente nelle “questioni” di politica italiana. Tocca ai politici affrontare seriamente questi problemi e certo anche alla chiesa italiana alzare la voce su questi argomenti che invece sono diventanti appannaggio di Pannella e dei suoi “digiuni”. Anche il noto poeta Guido Oldani a Milano venerdì 13 dicembre ha coordinato la III Edizione de “Il giorno dell’impiccato” per denunciare la condizione carceraria, vergogna dell’Italia e dell’Italia in Europa, riconoscendo agli artisti invitati di portare un soffio di intelligenza e di umanità al dramma dei carcerati ceh si tolgono la vita. Quando mi invitano per una testimonianza sul mondo del carcere io porto con me sempre due lettere di due giovani, una di chi non ce l’ha fatta a sostenere il dopo carcere e una di chi nutre speranza di farcela. Scriveva Giorgio al cappellano: “Sono uscito dal carcere. Adesso ho la libertà, la cosa più bella del mondo. Dopo 10 mesi sono tornato a respirare un po’ di pulito, di profumo, di amicizia. Non sono più chiuso in gabbia a subire, marcire, impazzire… Ma purtroppo devo dirti che i sogni che si fanno dentro e i propositi sinceri che ho fatto sono impossibili. Non trovo lavoro, non conosco più nessuno, c’è un mucchio di gente mai vista che non si degna nemmeno di un’occhiata, di un saluto. C’è un ambiente squallido e vuoto, di una società egoista… Non sto esagerando, sono sbalordito, frastornato, non vedo una minima soluzione alla mia situazione. Se me lo avessero detto prima, non avrei mai pensato che sarebbe stato così duro il dopo-carcere. Non ho ancora incontrato uno che mi abbia fatto un gesto da amico… Doveva essere una lettera di gioia e invece è un grido di aiuto… Alla peggio mi resta una soluzione ancora: ritornare a San Vittore”. E infatti è ritornato, per morire di disperazione. Aveva ventidue anni. Ecco i peccati che anche noi dobbiamo confessare, concludeva il cappellano. La seconda: “E’ una sera di quelle in cui non riesco a dormire, non so nemmeno io il perché, la mia mente spazia fra vari pensieri: la nostalgia, l’irrequietezza, lo sconforto, la rassegnazione e non ultima, la speranza… ma più di tutto conserverò per sempre impressi nella mia mente gli occhi di mia moglie Zohra. Quegli occhi tante volte scrutati durante i colloqui per cercare di capire se ci sono problemi in famiglia, se tutto va bene, se non ti tacciono qualcosa per non farti preoccupare o darti dispiacere. A volte tristi o con qualche lacrima, altre pieni di amore e di speranza per buone notizie ricevute, severi quando parlo degli errori commessi, oppure stanchi e rassegnati, ma sempre pieni di amore e di affetto. Mi accompagnano, mi consolano e mi danno la forza di sopportare il carcere. Li rivedo prima di addormentarmi e li ritrovo lì al mio risveglio. E saranno ancora lì alla fine della mia detenzione a darmi il bentornato, pieni di gioia, magari piangendo per la felicità”. Come si fa a non credere che davvero il carcere è il luogo della speranza, come amava dire il Cardinal Martini che celebrava sempre la prima Messa del giorno di Natale alla Rotonda di San Vittore.

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