I beni pubblici appartengono ai poveri

Non capita tutti i giorni di scoprire che si possiede un tesoro, soprattutto in un periodo di vacche magre, quando le fabbriche licenziano, i disoccupati si incatenano sulle torri, i cassintegrati scendono in piazza, i giovani sono a spasso e le famiglie non sanno più a che santo votarsi. Ci voleva la voragine del debito pubblico per farci venire in mente che tutto questo ben di Dio, accumulato attraverso secoli e generazioni, poteva servire a salvare il Paese dal baratro. Ville, castelli, palazzi, terreni, tenute agricole, caserme, miniere, isole e altro.Un tesoro immobiliare che, secondo un’indagine conoscitiva della commissione Finanze della Camera, vale 370 miliardi di euro. A oltre 1800 miliardi ammonterebbe, invece, il valore totale dei beni, secondo stime rese note dal ministro delll’Ecomia Giulio Tremonti, che però richiedono più approfondite verifiche. L’ipotesi è di dismettere parte di questo ingente patrimonio e recuperare, se serve, anche i frutti delle partecipazioni azionarie dello Stato. Sorge spontanea una domanda: - Com’è stato possibile accumulare tutte queste ricchezze, in tempi in cui i bilanci statali erano risicati e misera la condizione della gente comune, che era poi la maggioranza della popolazione? Questa domanda è strettamente collegata a un’altra: - Com’è possibile che in un regime democratico, nella società dell’opulenza e del libero mercato, nell’epoca del progresso si fanno montagne di debiti, mentre nelle derelitte società della sussistenza si accumulavano, invece, grandi fortune? La risposta alla seconda domanda poggia sull’ovvia considerazione che le società evolute vivono, chissà perché, sopra i propri mezzi e dissipano i loro beni, mentre rispondere alla prima domanda richiede un ragionamento più articolato.In breve, questa ricchezza si è formata quando la povera gente pagava le tasse e le imposte fino all’ultima lira, senza ricevere aiuti o servizi da parte dello Stato e delle istituzioni. La fascia più indigente era abbandonata al suo destino. Questo ha consentito allo Stato di lesinare sulla spesa sociale, sulla sanità e sulle altre voci di bilancio e di impinguare le entrate, moltiplicando così il suo patrimonio, formato da beni immobili di grande rilevanza storica, artistica e culturale, partecipazioni, risorse naturali e altro. Se questo è vero, i beni pubblici appartengono di diritto al ceto più umile, perché sono stati acquisiti a prezzo di inenarrabili sacrifici e privazioni che esso ha dovuto subire. Pertanto lo Stato ha l’obbligo di restituire ai poveri i benefici della vendita, intendendo per tali tutti i soggetti che sono compresi nella soglia della povertà, definita secondo criteri ufficiali. Secondo i risultati di indagini effettuate dall’Istituto nazionale di statistica, il 13,8% della popolazione è classificato povero, mentre l’11% è relativamente povero.Questa forma di ridistribuzione della ricchezza ha una giustificazione storica e morale ed è portatrice di pacificazione e riconciliazione nell’intera comunità nazionale, che oggi appare divisa e sfiduciata dalla corruzione e dagli scandali. Sarebbe, questa, la più grande rivoluzione sociale di tutti i tempi, più conforme allo spirito evangelico di quanto lo fossero le rivoluzioni sociali e politiche dell’epoca moderna. L’opportunità riappropriarsi dei beni ingiustamente sottratti ha anche una logica economica, se si tiene presente che a parere degli economisti l’unica condizione per uscire dalla crisi è rilanciare i consumi. Immettere nei mercati una forte liquidità è un colpo di frusta per l’economia, che finalmente decolla: si ricapitalizzano le banche e le imprese, le fabbriche aprono i battenti, si risanano i conti dello Stato, il debito pubblico diminuisce.Non è però scontato che lo Stato scelga questo percorso. Anzi, è probabile che esso si decida a vendere o svendere i suoi gioielli, senza alcuna ricaduta o vantaggio per la popolazione. In tal caso, però, i poveri diventeranno più poveri e i ricchi sempre più ricchi, con il rischio di andare incontro a rivolte sociali.

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