Ho votato Giorgio Napolitano

Pur nell’inusualità di una circostanza priva di precedenti nella storia della Repubblica, la conferma al Quirinale del presidente uscente Giorgio Napolitano ha consentito di risolvere uno stallo che rischiava di protrarsi oltre modo e di alimentare, insieme alla prolungata paralisi di Governo e Parlamento, tensioni sempre crescenti. Benché spesso nella storia l’elezione del Capo dello Stato sia stata contraddistinta da forti difficoltà ad individuare scelte condivise (basti pensare che nel 2006 lo stesso Napolitano, ora oggetto di diffuso apprezzamento tanto da parte delle forze politiche che dell’opinione pubblica nazionale, non ottenne un consenso generalizzato) e da percorsi particolarmente faticosi (come i 16 scrutini che furono necessari per l’elezione di Scalfaro nel 1992 o gli oltre 20 di Leone e Saragat, solo per citarne alcuni), i tormentati passaggi che hanno preceduto l’epilogo di sabato scorso sono stati indubbiamente a tratti poco edificanti, offrendo al Paese uno spettacolo per certi versi mortificante. Ciò che è successo non è giustificabile, ma deve essere compreso ed interpretato anche alla luce della situazione determinata da un risultato elettorale (quello del 24 e 25 febbraio scorsi) da “tempesta perfetta”, senza un chiaro vincitore, con i tre schieramenti sui quali si è concentrata la maggior parte dei consensi popolari che sostanzialmente si equivalgano ma sono separati da una profonda incomunicabilità. Questi elementi, già sufficientemente contradditori e problematici, si sono per giunta innestati su uno scenario istituzionale che ha visto coincidere le difficoltà a dare vita ad una maggioranza parlamentare e ad un Governo con la scadenza del rinnovo della presidenza della Repubblica, creando un cortocircuito che ha frustrato le attese del Paese, che alla politica chiedeva interventi urgenti e concreti per affrontare la drammatica situazione di crisi in cui versa. All’interno di questo quadro, chiamato da neodeputato a partecipare a queste cruciali vicende, con trasparenza mi sono assunto, insieme a molti altri, la responsabilità di non sostenere la prima candidatura portata dal mio partito, il Pd, all’esame del voto, quella di Franco Marini. L’ho fatto perché le modalità con cui questa ipotesi si è delineata non sembravano rispondere all’esigenza di costruire un’intesa che fosse frutto di un confronto aperto e responsabile, ma piuttosto alle logiche di un negoziato chiuso e lontano dalla richiesta di chiarezza che emerge dal Paese e dagli stessi elettori del Pd. Per quanto mi è stato possibile, ho poi tentato di lavorare alla costruzione di una proposta alternativa maggiormente condivisa, sperando di veder prevalere la disponibilità all’incontro tra le forze politiche. Non tutti, però, hanno accettato di confrontarsi, dando vita ad un braccio di ferro in cui si sono affermati egoismi ed incapacità di mediare fra i propri, pur legittimi, interessi politici e quelli più generali. Anche il Movimento 5 Stelle non ne è stato esente, chiudendosi in una posizione intransigente, senza riuscire a riconoscere che neppure la sua proposta godeva di consenso politico sufficientemente ampio e sostegno popolare adeguatamente esteso. Personalmente, sarei stato disposto a votare Rodotà, se questa prospettiva si fosse collocata nel quadro di un’intesa finalizzata a dare vita ad un governo, ipotesi a cui il M5S si è invece sottratto, perché la soluzione della crisi istituzionale non gli avrebbe consentito di continuare a lucrare su una posizione di sterile ed intransigente chiusura all’assunzione di qualsiasi tipo di responsabilità. Ma anche qualora questo scenario avesse avuto sufficienti presupposti politici, non si sarebbe comunque concretizzato, perché una larga parte del Pd non avrebbe votato per Rodotà, evidenza oggettiva di cui il M5S non ha mai voluto tenere conto, certo non per incapacità di riconoscerlo, ma ancora una volta per calcolo di convenienza. La scelta di designare Giorgio Napolitano per un secondo settenato ha quindi rappresentato l’approdo all’unico punto di equilibrio possibile, in un sistema che non prevede l’elezione diretta del Capo dello Stato: legittimamente alcuni non l’hanno né apprezzata né sostenuta, ma è fuori di dubbio che le prove di autorevolezza, rigore morale, fedeltà costituzionale e capacità di dialogo istituzionale fornite dal Presidente in questi anni rappresentino una garanzia per tutti ed un punto di riferimento per la politica e per gli italiani. Quanto la figura del nostro Presidente sia stimata ed apprezzata, anche sul piano internazionale, è peraltro dimostrato dalle positive reazioni di governi e cancelliere stranieri, e l’effetto stabilizzante della sua elezione è stato non da ultimo testimoniato dall’andamento positivo dei mercati finanziari, sia a livello di borsa che di differenziale tra il rendimento dei nostri titoli di debito pubblico e quelli tedeschi. Da questo punto fermo bisogna ripartire per provare a dare responsabilmente una risposta al bisogno di governo del Paese; diversamente, significherebbe giocare con una situazione potenzialmente esplosiva, per seguire dinamiche interne ai singoli partiti che devono invece essere affrontare in altre e più appropriate sedi. Perché l’elezione del Presidente della Repubblica, così come ogni altra questione di interesse nazionale, non deve essere il pretesto per spostare su un altro terreno lo scontro politico (magari strizzando l’occhio alla piazza) né per celebrare in anticipo il congresso di un partito.

L'ex sindaco di Lodi Lorenzo Guerini, ora neodeputato del Pd, spiega la sua scelta di appoggiare la conferma al Quirinale del presidente uscente

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