Gli insegnanti e la dignità perduta

«Bisogna esplicitamente restituirgli dignità: deve tornare ad essere un lavoro qualificato e gratificante». E’ quanto affermato dal ministro dell’istruzione Stefania Giannini, parlando della figura dell’insegnante, davanti a Papa Francesco che ha incontrato di recente il mondo della scuola in una piazza San Pietro gremita fino all’inverosimile. Dunque quello di restituire dignità all’insegnante è un problema fortemente sentito oggi più di ieri in una società che ha tolto quel poco di autorevolezza rimasta attaccata a un’importante istituzione come la scuola. L’insegnante al centro dell’attenzione, dunque, ma anche al centro dei ricordi che ognuno riserba nel cuore. Il Santo Padre ha dedicato parole bellissime alla sua prima insegnante ricordando che: «quella donna mi ha insegnato ad amare la scuola, non l’ho mai dimenticata», mentre oggi si fa fatica ad amare la scuola e si dimentica facilmente i propri insegnanti. Eppure sono convinto che ognuno di noi ha vivo nel cuore il ricordo di un insegnante che il tempo non cancellerà mai. Un ricordo accompagnato dalla memoria della sua opera, del suo particolare modo di relazionarsi, ma soprattutto della sua riconosciuta professionalità nel trasmettere l’amore per lo studio, il rispetto per gli altri e per se stessi. L’insegnante non è un impiegato (con tutto il rispetto che ho verso gli impiegati), né può essere ritenuto un esperto della comunicazione. L’insegnante è semplicemente colui che lascia un segno, che educa, che porta avanti un compito ben preciso che va oltre la propria funzione per diventare una vera e propria missione. Sappiamo tutti che la realtà oggi è ben diversa da quella di un tempo. La scuola oggi vive una crisi educativa senza precedenti. Una crisi di valori che mette a rischio lo stesso rapporto tra scuola e famiglia e a pagarne le conseguenze sono solo loro: i ragazzi. Inevitabilmente il riferimento va alla famiglia come prima comunità educante. Oggi la famiglia pare aver perso fiducia nella scuola. Non crede più alla sua espressione educativa, non accetta le scelte educative poiché le ritiene in contrasto con la propria scelta etica. Tra scuola e famiglia manca quella particolare intesa che per decenni ha rappresentato un collante nel rapporto tra chi era chiamato a trasmettere esempi e testimonianze e chi contenuti e valori. Non è un dato nostalgico. L’intento è quello di constatare in maniera semplice come nel delicato equilibrio tra genitori, figli e docenti qualcosa oggi si è inceppato. E’ come se un corto circuito avesse mandato in tilt un quadro d’assieme non più armonioso, che se fosse ben armonizzato avrebbe dato luce e amore all’opera educativa. Ma tant’è! Oggi ci sono delle brutte crepe educative che si allargano e distanziano le parti tra loro, tanto da confondere ruoli, compiti, funzioni e obiettivi. Talché ciò che per l’insegnante è essenziale per il processo educativo, per i genitori è deleterio. Si fatica a trovare obiettivi comuni. La collaborazione ha perso di significato.La scuola non è più in grado di farsi ascoltare dal momento che a prevalere non è più il dialogo, ma la ricerca di una strategia che non possa fare a meno di imporre il proprio punto di vista. E’ ancora il Santo Padre a ricordare con forza che «famiglia e scuola sono complementari, mai contrapposte, è importante che collaborino». Complementari vuol dire semplicemente completare un’opera insieme, quindi vivere un rapporto in piena intesa, in completa armonia. Ma il più delle volte ciò non avviene. Anzi. Spesso l’intesa salta, il dialogo si fa difficile, il rapporto si irrigidisce al punto da cercare nell’atto di forza la risposta che divenga agli occhi del compiaciuto figlio, l’esempio da seguire per imporre la propria visione. La collaborazione si trasforma in contrapposizione, la memoria dei valori in questioni di principio, le strategie educative in tatticismi movimentisti. Non si guarda più al ragazzo da educare mediante un comune impegno, ma alla tattica movimentista da perseguire per dare più valore alla vittoria finale dove la soddisfazione personale per aver ottenuto ciò che si cercava, è sostituita dalla tristezza collettiva per aver perso di cercare insieme la verità, di cercare insieme dov’era il bene e dove il male. La famiglia è sola e da sola non può mai rappresentare l’unica occasione educativa. Sempre il Papa ha ricordato un proverbio africano: «per educare un bambino ci vuole un intero villaggio» ovvero che un’opera così intensa e così difficile non può essere affidata alla fragilità educativa dei soli genitori, ma deve essere sostenuta dalla collaborazione di più agenzie che ruotano e vivono con il ragazzo. La scuola, la società sportiva, il gruppo associazionistico, ma anche il gruppo dei pari esistono e agiscono accanto ai genitori proprio in virtù del fatto che un ragazzo non vive solo in famiglia, ma cerca e trova nelle diverse esperienze di vita, l’occasione per misurarsi con se stesso e con gli altri. Questo non vuol dire espropriare la famiglia di un ruolo ben preciso, ma se mai aiutare i genitori a cercare un modello che superi quella specifica fragilità e trovi nella comune collaborazione le risposte più adatte al cammino educativo. Essere aiutati non è segno di debolezza, ma al contrario è un segno di chiara coscienza, in quanto si viene a scoprire il significato sociale e culturale dell’altro visto come soggetto attivo e partecipativo. Come non si può vivere soli, così poco o niente si può fare da soli. Per orientare, ascoltare, correggere, rimproverare, incoraggiare, dare forza c’è bisogno di aprirsi agli altri senza avere paura. Da soli i genitori non possono farcela. Il rischio è rinunciare all’autorità etica per lasciarsi catturare da un esempio estetico pronto a farsi valere per dimostrare da che parte sta la ragione. Educare è un’opera difficile. Educare è soprattutto esperienza di vita e testimonianza, una condizione umana per la quale scuola e famiglia non possono e non devono sentirsi estranei. Dunque la scuola torna ad essere il luogo privilegiato dove si misurano le diverse potenzialità, dove basta poco per rendere un’azione educativa vana se non inutile.

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