Giuda Iscariota, il primo dei voltagabbana

Giuda Iscariota ad un certo punto non ce la fa più, e salta dall’altro lato della barricata. Come apostolo era tra i più dimessi, un eroe provinciale, destinato ad una carriera da ragioniere di banca. Nei racconti dei vangeli emerge molto più nitida la predisposizione negativa di altri: di Pietro, che viene addirittura tacciato da Gesù di essere un “Satana”; di Giovanni e di Giacomo, collerici e ambiziosi, odiati dal resto del gruppo per le loro manie di grandezza. Ma di Giuda non si dice proprio niente. Lo si distingue dall’altro Giuda, presente nella compagnia dei Dodici, grazie a quel nomignolo – “Iscariota” – di cui francamente nessun esegeta, fino ad ora, è riuscito ad offrire un’interpretazione decisiva. Sappiamo solo che nei giorni di missione si accompagnava con il tipo più losco della comitiva: Simone, di cui gli evangelisti ricordano il partito politico; era uno zelota. Sarà questo partito politico, di lì a qualche decennio, a provocare il definitivo collasso delle speranze di Israele, trascinato in un’impossibile guerra di liberazione contro l’Impero romano. Giuda camminava a fianco a fianco con Simone. Ma questo, in fondo, non prova nulla: non è detto che le idee di questo estremista siano riuscite a filtrare, fino a inquinargli la testa. Monotono, Giuda. Giudizioso. I vangeli ci parlano di lui come interprete della frangia più sociale della Chiesa, quella che si preoccupa in prima battuta dei poveri. Sarà lui a lamentarsi, perché Gesù viene onorato con profumo, anziché venderlo, per far cassa in favore degli indigenti. I vangeli non ci dicono dunque nulla sui motivi del suo voltagabbana. Forse una frustrazione silenziosa, di quelle che non si confidano nemmeno agli amici, ma che si gonfiano in corpo come se fosse un tumore. Alla fine i suoi pensieri erano solo metastasi. Se gli altri protestano contro Gesù, gli sbattono in faccia tutto il loro malcontento, confessano di avere paura, e di non voler scendere a Gerusalemme, lui invece abbassa gli occhi. Ragioniere consegnato al suo dovere di discrezione. Ma dentro di lui cova l’inferno. Perché Gesù non mantiene le promesse? Perché illude la gente e – in primis – quel gruppo di sciagurati che ha lasciato tutto per bighellonare dietro di lui? Dove sono i momenti felici del fidanzamento, l’epoca in cui ci si era gettati a capofitto in quell’impresa sconsiderata, il fotogramma di tante folle che si erano radunate tra le verdi colline di Galilea? C’è una canzone di quel fortunato musical di qualche anno fa – “Jesus Christ Superstar” – che sembra inquadrare proprio in questa maniera il problema. È Giuda che canta: “My mind is clearer now – at last all too well. I can see where we all soon will be”. “Adesso la mia mente è lucida, finalmente, e anche troppo bene. Posso vedere dove presto andremo tutti a finire”.Perché dunque non si torna indietro? Nelle sperdute terre del nord, lontano da Gerusalemme, dove Gesù non aveva nemici? Dove, se solo l’avesse voluto, sarebbe diventato uno dei tanti guru di cui la gente è perennemente affamata? Giuda diventerà così il simbolo del male, l’archetipo del traditore, di colui che, per una somma da niente, si sbarazza di un amico. Trenta denari è una cifra irrisoria, se messa sul piatto del delitto che si sta consumando. In questo Giuda, per la prima volta nella sua vita, non si è dimostrato buon economo. E poi, tentennante e subito fragile, Giuda si pente, e torna sui suoi passi. Implora alle autorità del sinedrio di cancellare tutto, di sospendere quell’affare su cui aveva apposto anche la sua firma, perché all’improvviso l’ha colto un ripensamento. Giuda non è un mafioso di quelli con il pelo sullo stomaco, non è nemmeno un irriducibile: si ricorda di avere anche lui un’anima, e comincia a soffrire. E sarà questo dolore a farlo disperare, fino a condurlo alla morte. Eppure il cristianesimo sarà capace di riversare su di lui non solo una misura di astio, ma anche tanta pietà. “Giuda nostro fratello”, predicherà don Primo Mazzolari, nella settimana santa del 1958. H.U. von Balthasar, il più grande teologo del Novecento, scriverà: “La chiesa, che ha canonizzato tanti individui, non si è mai pronunciata sulla dannazione di alcuno. Neppure su quella di Giuda, che divenne per così dire l’esponente di quello di cui tutti i peccatori sono corresponsabili. Chi può sapere di che tipo fu il pentimento che egli provò, quando vide che Gesù era stato condannato?”. E poi chissà: forse Dio non mendica nemmeno il nostro pentimento. Nessuno dei crocifissori che lo hanno impalato sul Golgota dimostra segni di ravvedimento: in questo almeno Giuda si è dimostrato più umano. Eppure Gesù prega: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Sul Calvario c’è una preghiera anche per chi non ne vuol sapere, e nemmeno si pente. Ma non una preghiera qualsiasi: le parole escono calde dalle labbra di Gesù. E voi pensate che, in tutto l’universo, vi sia da qualche parte nascosta una forza di segno contrario, capace di inghiottirle, e di censurarle per sempre?

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