Da tempo si parla di «emergenza educativa», identificando il problema anche nel comportamento poco responsabile di chi è chiamato ad educare i ragazzi che vivono nel più completo isolamento culturale, trovando nella realtà virtuale la risposta ideale alla sete di conoscenza. Come se ciò non bastasse, oggi si parla con sempre più insistenza di «povertà educativa», trovando negli ambienti sociali e scolastico le cause principali dell’abbandono relazionale, reso tanto più drammatico quanto più deludenti sono le risposte della scuola. Una scuola che ormai non sa più essere quell’«ascensore sociale» a tutela dei ragazzi meno abbienti sempre più allo sbando e sempre più preda di disegni violenti ed eversivi. Che si parli di «emergenza educativa» o di «povertà educativa» un fatto è certo, la cronaca parla sempre di loro: i ragazzi. Non mi stupisce la sciatteria che traspare dal loro apparire quanto mi preoccupa, invece, la loro spavalderia alimentata da atteggiamenti di sfida tali da rendere vieppiù problematici i rapporti con gli adulti fino a sfociare nel più complesso comportamento «borderline» con chiari segnali di disturbi della personalità. Mi preoccupa la loro irresponsabilità che trova talvolta nella violenza la fase più acuta e più incisiva della gestione del rapporto conflittuale soprattutto con i coetanei, ma all’occasione anche con gli adulti siano essi genitori o docenti. Perché tutto questo? A cosa o a chi dobbiamo questo pericoloso crinale su cui si incammina il rapporto educativo? Cerco di darmi delle risposte. Domenica scorsa, ad esempio, l’idea di una passeggiata in compagnia di famigliari mi ha condotto alle «Cupole», un centro commerciale assai noto a tanti della nostra zona che personalmente considero un interessante osservatorio sociale dove adulti, giovani e bambini trovano occasioni di svago e di divertimento. Ebbene a fine serata se dovessi tirare le somme su quanto ho avuto modo di osservare, dovrei dire che a divertirsi sono stati soprattutto gli adulti ancor più dei bambini. Di qualsiasi spazio commerciale, opportunità di divertimento o di svago, gli attori principali sono stati solo gli adulti. Un’esperienza singolare che giocoforza mi porta a una considerazione. Gli adulti oggi sono una categoria di persone che non hanno voglia di crescere. Una categoria alla continua ricerca dell’l’elisir di lunga vita, il solo forse che li fa sentire perennemente ragazzi. Una categoria che crede di avere sempre vent’anni, che si sente adolescente con i capelli bianchi, che maneggia con abilità ogni novità tecnologica, che entra in competizione con gli stessi adolescenti, annullando ogni differenza. Disorientare sembra essere la parola d’ordine, mentre dimettersi dal compito educativo o dare un basso profilo al proprio comportamento, appare come una scelta di vita. Io non so perché Cesare Pavese abbia scritto «Lavorare stanca», so di sicuro perché per i genitori «educare stanca». Come si fa ad essere credibili quando persino i ruoli sono messi in discussione? E come si fa a non parlare di «emergenza educativa» quando persino la relazione tra genitori e figli è supportata da soluzioni fallimentari? «Una generazione educa l’altra. L’uomo può diventare tale solo con l’educazione» ci ricorda Kant, ma se poi a dettare il passo è lo smarrimento della famiglia intesa come primo nucleo sociale, è quell’irrefrenabile desiderio degli adulti di vedere in Peter Pan l’idolo a cui ispirarsi in campo affettivo, sociale e lavorativo, è quella strana voglia matta di stare ai margini o sul greto del fiume ad aspettare gli eventi, allora parlare di «emergenza educativa» è forse persino troppo poco. Se poi a tutto questo dovessimo aggiungere quel preoccupante tratto dell’ambiente che circonda i ragazzi di oggi, allora dovremmo allarmarci e chiederci cosa c’è nella vita sociale più disastrosa di un’esperienza esposta a una misera «povertà educativa» tale da condizionare la crescita di un ragazzo? A farci riflettere sono i recenti fatti di Napoli e Trani dove degli adolescenti vittime e carnefici di se stessi, hanno lasciato il segno del loro passaggio tra un habitat privato delle più semplici ed elementari regole di vita. A Napoli, nel rione Sanità, viene ucciso un ragazzo di 17 anni figlio di un territorio dove il confine tra la vita e a morte è molto labile, mentre a Trani un minorenne uccide con un coltello un giovane commercialista intervenuto per sedare una lite tra ragazzini. Entrambi gli episodi delittuosi sono una diretta espressione di quel vallo sociale che non si riesce a colmare nonostante i diversi interventi di risanamento pubblico. Un rione, quello di Napoli, per certi versi morto ancor prima della morte del diciassettenne. Un rione dove opera la scuola con la sua forte presenza educativa resa, però, debole da una struttura inadeguata all’ambiente, da una cultura povera e degradata che non accetta regole fuori dalle regole. Una cultura fracassona e senza regole quella della zona del porto di Trani dove la movida ha assistito inerme al violento episodio che ha tolto la vita a un giovane la cui unica colpa è stata quella di aver tentato di sedare una rissa tra minorenni. Ma ancora una volta la «povertà educativa» non ha saputo dare risposte, non ha generato valori, non ha protetto i ragazzi caduti in una rete a maglie larghe perché non ha saputo offrire loro passatempi più duraturi di quelli offerti dall’effimero. Dunque oggi è più difficile di ieri educare, trasmettere una tradizione proprio perché i genitori di oggi hanno perso le tradizioni, fanno fatica a sbloccare quel mondo interiore fatto di valori da rinnovare, di regole da rispettare, di condotta da tenere, di relazioni da valorizzare. In poche parole di vivere la vita. Il mio ruolo di preside mi consente di incontrare tantissimi genitori. Ebbene talvolta ho l’impressione di trovarmi di fronte a persone smarrite che non sanno come e cosa fare per correggere gli errori dei figli. Anzi. Pur di trovare una soluzione alla conflittualità generata, non risparmiano critiche, mandando «accidenti» agli insegnanti. Ma in questo modo dimostrano di non saper prendere una direzione. Allora scopro che nonostante i secoli è ancora Seneca ad aver ragione: «Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare».
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