Nella contrapposizione dialettica o quando si sostiene una preferenza nella discussione occorrerebbe essere sempre argomentativi e non assertivi. Argomentativi intendo con qualche sottigliezza critica e lontani il più possibile dagli arzigogoli fumosi, dal genericismo o dalla gratuità del sentito dire. Da parte mia ho conoscenza di un maggior numero di assertivi rispetto agli argomentativi. È troppo vago affermare “mi piace, è bello” o di contro “non mi piace, è brutto”. Ho precisato ‘sempre’, ma in particolar modo nel campo delle scelte culturali per dire nello specifico dell’arte. In questo ultimo caso la prima difficoltà è nella comprensione della stessa per un giudizio di valore che non è mai un fatto opinabile, essendo ormai chiaro che non è accettabile il cantilenante ritornello “che non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”. Un esempio. Raffaello è bello nelle sue raffigurazioni e piace per il sentimento e la grazia delle gentili madonne. Per questo appaga subito l’occhio comune di pregnanza emotiva, ma perché è bello o piace? Perché? Il giudizio sul suo valore richiede l’aggiunta dell’occhio critico per rimandare tutto a una valutazione più profonda e più distintiva, per preferire lui agli altri, magari altrettanto bravi pittori in cerca della grazia e del bello per le stesse immagini. Raffaello è sommo e più importante per il modello di classicità che nella sintesi di storia e natura si è affermato come eloquio di ordine, armonia, misura e naturalezza nel calmo accordo tra forma, colore, spazio, e grazia unita alla bellezza in una luce calda, umana. Insuperabile modello ancora oggi.Questa concezione del bello, della via pulchritudinis, è durata fin quando con le avanguardie del secolo passato i fatti artistici hanno proposto una sintassi percettiva differente rispetto alla precedente, passando per comprenderla, dal codice interpretativo multiplo (spazio, forma, colore, luce, composizione, disegno, prospettiva, atmosfera, movimento) a quello specializzato proprio dello stile di ciascuna tendenza avanguardistica con il cambio rivoluzionario del paradigma in atto e rottura dei moduli tradizionali. Dopo l’ultimo naturalismo dell’impressionismo sono esplosi vari fenomeni: il pointillisme di Seurat, l’espressionismo di Van Gogh, il cubismo analitico e sintetico, il futurismo, l’astrattismo nelle varie declinazioni, la metafisica dechirichiana, il dadaismo, il surrealismo, l’informale, la pop art, il concettualismo, anche la body art per giungere infine all’arte povera che più povera non potrebbe essere, e che per il suo guru Germano Celant nasce come contrapposizione (anzi avversione) “alla forma congelata e cadaverica dell’arte tradizionale”. Così, citando nel corso di cento anni i movimenti più affermati. Un processo di comunicazione espressiva mutato, in continuo movimento con un susseguirsi veloce di cambiamenti che hanno attraversato il cosiddetto secolo breve. Però in questi recenti anni stiamo assistendo a innovazioni così sorprendenti e ingiustificabili che considerare arte certi manufatti oltre che difficoltoso diventa impossibile tanto è largo il divario delle forme e dei risultati, chiamiamoli artistici, in confronto a quanto consacrato. D’accordo, è cambiato il sistema dell’arte con il predominio attuale degli aspetti comunicativi pubblicitari e commerciali e dell’evoluzione tecnologica su quelli tradizionali e autentici portatori di idee e risultati artistici, ma oggi l’arte è stata messa sotto i piedi, cominciando dal rifiuto della conoscenza delle tecniche, della consapevolezza del saper fare e della creatività artistica (ben sapendo che quest’ultima nei secoli non risulta riservata a tutti i pittori, e non sempre ai molti in possesso della capacità tecnica del mestiere). Qualche volta parlando con chi è animato dagli stessi intendimenti e dal concetto di arte basata su valori non riconosciuti nelle manifestazioni attuali e dalle quali rimanere lontani per le oscillazioni di cattivo gusto, viene da sentirsi soli, fuori dal coro, disallineati. Soli, con irritazione estetica, per rifiutare questa contemporaneità di diffusa fama planetaria dei vari Hirst, Koons, Cattelan, Fabre, Chapman e consorteria varia, pure cinese, autori (e spesso neppure) di provocazioni, eccessi, sberleffi e stramberie, di trastullanti bibelot, di gadget e cianciafruscole infantili, di prodotti (tralasciando gli stercorari del post-human) che di artistico hanno proprio nulla e neppure stupori umoristici. E’ merce, a volte paccottiglia, estensibilmente pubblicizzata e come tale esposta in vetrina, venduta da veri mercanti di se stessi e comprata quale rappresentazione di prodotti di un consumo di lusso, di uno status symbol per nuovi ricchi, snobistici e senza competenza. L’art global market delle logiche commerciali e comunicative odierne imperversa anche per le alte quotazioni, scandalosamente intollerabili, sostenute da questa deriva modaiola e dal circuito tossico e speculativo del capitalismo finanziario, del marketing, con tutta la spettacolarizzazione e vetrinizzazione del caso. Arte non arte che distrugge l’amore per il bello, la filocalia eterna che nell’arte non contempla il bello di natura fine a se stesso, ma il bello artistico che può risultare dal brutto di natura bellamente rappresentato, a conferma che non conta ciò che piace (il quod libet dei latini), ma ciò che vale, non certo per rapportarlo alle alte quotazioni del mercato. Oggi invece si celebra il brutto che non vale.Comunque nel tempo c’è sempre un riparo allo sconforto, al disgusto, soprattutto quando improvviso e inaspettato arriva il giudizio impietoso e distruttivo di un propugnatore, anzi fondatore e tra i più influenti galleristi mondiali di questa arte da palcoscenico. Per Charles Saatchi infatti l’arte dei pupilli da lui “lanciati” (Hirst, Emin e sodali della Young British Art) e nient’altro che “mostruosa volgare e imbarazzante” o “da ricordare al massimo in una riga in nota”. Infatti il valore effettivo di un’opera d’arte viene consacrato, come dice il filosofo Gadamer, solo “consegnandosi alla distesa dei tempi”. Giù il cappello davanti a Saatchi per questa tardiva resipiscenza dopo tanta responsabilità (sperando che non sia resipiscenza falsa, provocatoria per altri fini) e così da parte nostra cominciamo a non sentirci più nel coro degli isolati, delle voci critiche considerate non contemporanee e meno ancora progressiste, quasi fossimo dei sopravvissuti.“Ma oggi è d’uso gabellar per nobile ciò ch’è soltanto rozzo. E la goffaggine vien proclamata maestosità” (Goethe, “Faust”).
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