Fra egoismi e crisi l’Europa che verrà

«Viviamo sotto il medesimo cielo, ma non abbiamo lo stesso orizzonte». Il pensiero preoccupato del cancelliere tedesco Konrad Adenauer risale agli inizi del percorso comune europeo e riaffiora in tutta la sua attualità mentre la crisi accompagna il passaggio da un anno all’altro. Spesso un’immagine riassume ed esprime una realtà o un problema meglio di molte parole. E questa richiama, in particolare, la fragilità della «solidarietà di fatto» sulla quale, nel pensiero dello statista francese Robert Schuman, avrebbe dovuto fondarsi, fin dalla nascita, l’Europa del futuro, l’Europa uscita dall’odio e dalla distruzione della seconda guerra mondiale. In realtà all’inizio del processo di integrazione si partì con il piede giusto, ma appare oggi evidente il rischio di cedimento del fondamento primo della «casa comune» europea perché dentro la solidarietà si racchiudono culturalmente tutti gli altri valori. La crisi economica mondiale dapprima, gli egoismi degli Stati che non hanno voluto e non intendono cedere parte della loro sovranità all’Unione, e una finanza selvaggia, hanno trasformato l’Europa solidale nell’Europa degli interessi nazionali che l’hanno confinata in orizzonti temporali chiusi, costringendo gli europei di alcuni Paesi a forti sacrifici mentre altri difendono l’orticello dei propri interessi convinti che questa sia la via della salvezza, della crescita, del benessere. Si è incrinato il principio comunitario secondo cui ogni Paese avverte la responsabilità di contribuire, proporzionalmente alla propria ricchezza, al bene comune europeo e, di conseguenza, alla autorevolezza dell’Ue nel mondo. Un’altra «solidarietà» sta prendendo piede ed è quella degli egoismi. Gli egoismi tra di loro solidali ostentano sempre più i loro slogan, le loro ideologie. E raccolgono consensi. Le analisi e le diagnosi attorno al fenomeno abbondano. Manca però una terapia efficace per guarire un’Unione europea la cui precaria salute è messa ancor più a repentaglio dal pessimismo e dallo scetticismo. A entrambi non si risponde con la polemica ma con un nuovo e grande pensiero europeo da cui possano nascere figure lungimiranti, capaci di portare l’Unione europea fuori dal campo delle schermaglie sui vincoli di bilancio, sui debiti sovrani, sugli indebitamenti. E qui sono attesi soprattutto i giovani europei che amano l’Europa più di quanto si scriva e si pensi. L’Europa ha bisogno di riprendere quota non solo per se stessa, ma perché venendo meno un’Europa politicamente e culturalmente forte nella sua unità verrà a mancare un luogo del tutto originale dove territori piccoli e grandi, antichi e nuovi si incontrano sul grande tema della dignità delle persone e dei popoli. Papa Francesco lo ha ricordato a Strasburgo il 25 novembre indicando nella cultura dell’incontro la via maestra per la rinascita di un continente vecchio e stanco. L’Europa si salverà se tornerà la stagione della pazienza e dell’intelligenza di chi guarda più in alto e più lontano, consapevole che ci sono appuntamenti con la storia ai quali non si può arrivare in ritardo. «Se l’Europa non si fa oggi - scriveva Alcide de Gasperi nel 1954 - la si dovrà fare tra qualche lustro, ma cosa passerà tra oggi e quel giorno Dio solo lo sa». Sessant’anni dopo, questa riflessione può essere letta come la conferma di un fallimento oppure come un invito a correggere errori e un incoraggiamento a costruire responsabilità, competenze e fiducia. Le parole di De Gasperi sono un appello ai giovani. L’Europa, in cui continuano a credere, è nelle loro mani, nel loro pensiero, nel loro impegno. Mai come in questo passaggio da un anno all’altro si avverte l’urgenza del protagonismo europeo delle nuove generazioni perché sotto lo stesso cielo non ci siano tanti orizzonti diversi oppure un orizzonte unico e monocolore ma ci sia un orizzonte comune e multicolore.

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