Fine vita, perché sì alla legge

Una morale attenta a coniugare insieme il bene irriducibile della vita umana e il bene inalienabile della libertà non può non dirsi favorevole all’approvazione del disegno di legge sulle “Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat)” in discussione in questi giorni al Parlamento. Una morale attenta a coniugare insieme il bene irriducibile della vita umana e il bene inalienabile della libertà non può non dirsi favorevole all’approvazione del disegno di legge sulle “Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat)” in discussione in questi giorni al Parlamento. Sul primo versante il disegno di legge è a tutela della vita di una persona in fase terminale o affetta da gravi patologie degenerative, mettendola al riparo dal rischio sia di abbandono che di ostinazione terapeutica. Di abbandono terapeutico, in quanto il disegno di legge proibisce ogni forma di eutanasia, sia attiva che passiva. Attiva, intesa a provocare la morte con farmaci o atti clinici letali. E soprattutto passiva, intesa a provocare la morte per omissione di cure ordinarie e proporzionate al paziente. È su questa seconda evenienza che si sono sviluppate le dispute. Per due ordini di motivi. Il primo concernente la linea di confine tra cure ordinarie e straordinarie e tra cure proporzionate e sproporzionate e quindi tra cure adeguate ed efficaci e cure inadeguate e inefficaci. Doverose le prime. Volontarie le seconde e, per non cadere nell’accanimento terapeutico, da omettere. Qui la legge demanda alla valutazione in scienza e coscienza del medico e, in caso di controversia, di un collegio di medici. Spetta loro decidere di volta in volta, caso per caso, il tipo di cura e della sua obbligatorietà. Il secondo ordine di motivi concerne invece l’idratazione e la nutrizione, in tutte le forme in cui la scienza può consentirle. Cure che la legge dichiara irrinunciabili, fino a quando il paziente è in grado di recepirle e risultino per lui efficaci. Motivo per cui il loro rifiuto non può né essere oggetto di dichiarazione anticipata da parte del soggetto, né essere deciso da alcun altro per lui. Di fatto idratazione e nutrizione non costituiscono terapie mediche ma forme elementari di sostentamento, omettendo le quali l’ammalato muore non per la malattia da cui è affetto ma per disidratazione e denutrizione. È così salvaguardato il bene “inviolabile e indisponibile” della vita umana.Sul secondo versante il disegno di legge tutela il bene della libertà, non centrandolo su se stesso – su un autoreferenziale e irrelato potere di decisione – ma rapportandolo al bene morale della vita. Le libertà in atto qui sono due: quella del paziente e quella del medico. La libertà del paziente è affermata dal potere di “accettare o rifiutare di essere sottoposto a trattamenti sanitari sperimentali altamente invasivi” e di rinunciare a “forme particolari di trattamento sanitario in quanto di carattere sproporzionato, futili, sperimentali, altamente invasive e invalidanti”. Possibilità queste che non esprimono alcuna intenzione eutanasica, ma la volontà di vivere la morte come l’ultimo atto della vita, senza forzature mediche dirette ad evitarla ad ogni costo. In secondo luogo la libertà del medico, tutelato nella sua coscienza e non obbligato a “prendere in considerazione indicazioni contenute nelle DAT orientate a causare la morte del paziente o comunque in contrasto con le norme giuridiche o con la deontologia medica”.La libertà del paziente e quella del medico s’incontrano nel riconoscimento e nel rispetto del bene centrale e basilare della vita umana. L’una e l’altra non sono mai una libertà contro la vita: una libertà di suicidio (da parte del paziente), di suicidio assistito (da parte del medico). Ma sempre e solo una libertà di amore e tutela della vita, sino alla fine: senza né anticiparla per abbandono, né posticiparla per accanimento terapeutico.

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