Fiat, prima di tutto i lavoratori

Nella strategia di Marchionne per il settore auto di Fiat, quella americana appare come la scelta prevalente. L’alleanza con Chrysler - divenuta ormai, grazie ad Obama, una fusione - si presenta come il perno della “nuova Fiat” su cui l’amministratore delegato ha ottenuto a suo tempo il consenso degli azionisti. Il fatto che “Fiat-America” funzioni mentre “Fiat-Europa-Italia” sia in difficoltà sembra giustificare ampiamente la scelta (e sono gli argomenti che Marchionne ha usato nella sua intervista a un quotidiano di oggi). Senza dimenticare, però, che l’attuale successo americano è stato ottenuto partendo da una situazione molto diversa da quella europea, in cui gli “aiuti di Stato” sono proibiti. Non era così in passato: e anche Fiat ne aveva usufruito abbondantemente. In America, inoltre, il governo federale è in grado di prendere decisioni “d’interesse nazionale” che da noi richiedono mesi di trattative fra i vari Stati membri dell’Unione. Per altro anche in Europa Francia e Germania, diversamente dall’Italia, hanno preso atto e affrontato il tema della crisi del settore auto… E, ancora guardando all’Europa, è vero che Fiat ha acquisito negli ultimi anni un respiro mondiale rafforzandosi in mercati promettenti come Brasile, India e Cina. Ma è altrettanto vero che, compiendo questa scelta, ha spostato il proprio baricentro dall’Europa - e dall’Italia in particolare, dove le condizioni del mercato sono obiettivamente molto più difficili. Si può ancora osservare che le scelte europee di Fiat sono state fatte guardando “fuori” dall’Unione: l’unico nuovo stabilimento avviato è in Serbia, dove le condizioni di lavoro e di mercato sono ben diverse da quelle dell’Europa a 27, per non parlare dell’Eurozona. Lo stesso investimento in Polonia (precedente all’era Marchionne) sembra badare più alla possibilità di sfruttare le diversità territoriali che a una logica di “radicamento continentale”.

La storia (breve e contrastata) di “Fabbrica Italia” va letta, ci pare, all’interno di questo quadro complessivo di ridimensionamento della presenza Fiat non solo a Torino e in Italia ma in Europa. Alla fine di ottobre verranno presentati nuovi progetti che, secondo l’ad di Fiat, tengano conto del grave stato di crisi del mercato italiano ed europeo. È un annuncio che non sposta molto rispetto alla realtà che già si conosce, ma la vicenda di “Fabbrica Italia” si riconduce a molti caratteri tipicamente italiani: l’assenza di prospettiva in cui ormai da troppi anni si vive in questo Paese, “appiattito sul presente” anche e soprattutto quando si tratta d’impegnarsi a progettare il proprio futuro. L’assenza di una politica industriale è ben più antica del Governo attuale; e forse non è casuale che gli anni della cosiddetta Seconda Repubblica siano gli stessi della grande crisi Fiat e della dismissione di settori industriali strategici in Italia (chimica, informatica, siderurgia…).

Le scelte di Marchionne, giunto in Fiat dopo la morte dei fratelli Agnelli, sono state orientate prima di tutto a salvaguardare gli interessi degli azionisti, come è evidente e ovvio. Ma ciò è accaduto anche nel disinteresse, e in una malcelata ostilità, degli ambienti governativi, quando si dichiarava di voler trasformare questo Paese in un “polo del lusso”, in cui la ricchezza sarebbe venuta soprattutto dal turismo e dal valore aggiunto di beni e servizi per i ricchi. In quella visione dell’Italia il gruppo Fiat non aveva molto significato: bastava tenere Ferrari e Maserati…

Il disegno di Marchionne, poi, è stato facilitato anche dai suoi migliori nemici, certe correnti oltranziste del sindacato ferme alla convinzione che, anche dopo il 1989, il salario continuasse a essere una “variabile indipendente”. Ottenendo così almeno un risultato, comunque sia, sicuro: quello di sfiancare i moderati, nel mondo imprenditoriale e soprattutto in quello sindacale.

La strategia di comunicazione del manager italo-canadese ci ha messo molto del suo: con la grande capacità di “dettare l’agenda”, spostando continuamente il confine del dibattito - o dello scontro verbale - dalle nuove regole contrattuali ai progetti d’investimento, dall’uscita da Confindustria alle questioni dell’art. 18, alle polemiche (cose mai viste, nell’antico stile Fiat) su certe sentenze della Magistratura. Uno dei risultati di tale strategia è stato, ci pare, quello di mantenere a lungo - troppo a lungo - il “caso Fiat” nel recinto delle questioni settoriali, lasciando dimenticare che il tema vero non è se la Fiat abbandona o meno Torino, ma la presenza di un sistema di grande industria in questo Paese. Un “basso profilo” che ha fatto comodo finora ai Governi nazionali, alla stessa Fiat, agli altri grandi imprenditori e al sistema bancario, oltre che a quei “profeti di sventura” mediatici che in queste ultime settimane hanno cercato di utilizzare la situazione per asservirla a qualche interesse di bottega.

Ora, però, l’intero quadro è tornato in movimento. E dunque è il momento di non nascondersi più le condizioni reali della situazione e le sue conseguenze, produttive come occupazionali. Anche per questo sarebbe utile mantenere il massimo della chiarezza, su tutti i fronti: quello dei passi del Governo, ma anche quelli di Fiat, che ormai ha sfruttato fino in fondo la carta degli annunci, delle smentite e dei fumi della rissa verbale. Così come è necessario che nessuno dei protagonisti si chiami fuori. A cominciare dalla famiglia Agnelli. Anche senza rinvangare la lunga storia dei rapporti tra il Lingotto e il Paese, c’è una realtà d’impegno di capitali e risorse produttive che non può essere né dimenticata né minimizzata; e c’è un quadro di “interessi comuni”, di Fiat e Italia, che non viene cancellato in un mese ma che anzi può essere ripensato e rafforzato per il futuro.

La vera priorità, per Torino come per l’Italia, è il lavoro: prima del “valore per gli azionisti”, prima della realizzazione di un qualche “diverso modello di sviluppo” viene il diritto a mantenere se stessi e la propria famiglia. L’arcivescovo di Torino lo ha ricordato in più occasioni di recente: e forse non sarebbe male che altri seguissero. È sul lavoro che si gioca la capacità di uno Stato di garantire la dignità ai propri cittadini, in una prospettiva di bene comune. Vale per la Fiat, l’Ilva, l’Alcoa come per tutte le altre crisi grandi e piccole che non arrivano neanche ai mass media ma che - anche senza fare notizia - stanno impoverendo questo nostro Paese.

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