Fatica e serietà, la scuola riparte da qui

Gaio Musonio Rufo, filosofo tanto inviso a Nerone e Vespasiano, quanto ammirato dai suoi allievi, ricordato come il “Socrate romano”, esaltò l’alto valore morale della «fatica», che è strettamente connessa all’«esercizio», e giunse ad affermare che «chi non vuole faticare, subito si autocondanna a non essere degno di alcun bene, poiché i beni si acquistano tutti con fatica». Uno potrebbe dire: roba d’altri tempi. Oggi, infatti, faticare non va più di moda, anzi, sotto certi aspetti è vista come una condizione negativa poiché delegittima l’apparire da sempre in contrasto con l’impegno, il sacrificio. E invece ci sono dei valori che non hanno tempo, che sono eterni come è eterna la storia dell’uomo, che dovrebbero rimanere scolpiti per sempre nelle menti e nei cuori di ciascuno di noi. La fatica, per tanto tempo caduta in disuso, oggi viene sempre più spesso evocata accanto al rigore, alla serietà, al sacrificio, poiché solo con certi valori può riemergere dal passato la costruttiva relazione che caratterizza il rapporto tra giovani e adulti, tra studenti e docenti, ma anche tra ciò che si desidera e ciò che si ottiene. Nessuno mette più in dubbio che oggi i ragazzi vivono con inusitata faciloneria impegni, relazioni, responsabilità e che anzi all’occasione rivendicano diritti che se portati all’esasperazione finiscono per trasformarsi in pretese a cui corrispondono, spesso, altrettanti cedimenti da parte degli adulti. Ma non sempre l’adulto è disposto a cedere e allora si creano favorevoli condizioni di tensioni tali da portare il ragazzo a reagire con volgarità, turpiloquio e persino violenza, tutte espressioni che nulla hanno a che vedere con una traccia educativa. Ciò che più preoccupa è che questi atteggiamenti, talvolta resi concreti da variabili comunque poco percettive, diventano patrimonio comune tra i ragazzi e finiscono per consolidarsi come un normale vissuto storico. Per dirla in parole povere il vergognoso turpiloquio, lo scarso impegno, la pretesa di ottenere ad ogni costo ciò che si vuole, diventa una normale condotta di vita perchè asservita a luoghi comuni accettati e condivisi. E cosa ancor più preoccupante è che questo stile di vita trova terreno fertile anche tra i giovanissimi se non addirittura tra i bambini che oggi, purtroppo, crescono troppo in fretta. Dobbiamo preoccuparci o essere attendisti e aspettare tempi migliori per recuperare certi valori? Personalmente mi preoccuperei e inviterei a riflettere sul da farsi. Del resto di cattivi esempi la cronaca è piena. E’ di qualche giorno fa la lettera di una mamma, pubblicata su un noto quotidiano nazionale, amareggiata dal comportamento tenuto da alcuni studenti sull’autobus di ritorno a casa. Qualcuno di loro aveva avuto un brutto voto a scuola. Facile immaginare il commento arricchito di battute volgari rivolte all’indirizzo degli insegnanti colpevoli di averli valutati negativamente. Il tutto a voce alta senza alcuna riserva, senza preoccuparsi della presenza di adulti, attoniti di fronte a tanta volgarità. Ma l’amara normalità è questa. L’invito dell’insegnante a studiare con un serio impegno, in simili casi, cade nel vuoto fino a trasformarsi alla pari di una provocazione poiché non più in sintonia con la cultura del niente che accompagna tanti ragazzi nel vivere quotidiano. Una provocazione che talvolta trova nuova linfa nella certezza di confidare nell’aiuto del genitore, un alleato pronto a scendere in campo pur di dimostrare che rigore, fatica e serietà sono praticamente inutili accessori che nulla hanno a che vedere con la cultura e la formazione. E allora l’unica soluzione potrebbe essere quella di rendere tutto più semplice, tutto più facile senza che un minimo dubbio possa intromettersi a rendere più problematica la richiesta. In questo modo passa il dato culturale, educativamente errato, che la via complicata, quella che richiede sacrificio, impegno e soprattutto fatica, può essere aggirata, scansata, tanto al traguardo prefissato si arriva comunque. Il problema sta proprio qui. Se faticare stanca, se faticare richiede impegno, ore di studio, riflessione, scambio di idee, se faticare significa non prepararsi psicologicamente a superare i momenti più tristi, se tutto questo non rientra nei programmi di vita, allora sono portato a pensare che c’è qualcuno che non insegna ai ragazzi le difficoltà che la vita riserva in ogni momento della giornata. Anzi. Ai ragazzi probabilmente viene insegnato che si possono comunque raggiungere diversi obiettivi senza lasciare sul fazzoletto una goccia di sudore. Una cultura molto pericolosa poiché fonda la sua concretezza nella possibilità di ottenere ciò che si vuole senza metterci nulla delle proprie capacità, del proprio intuito, della propria creatività. E allora nascono delle false convinzioni come quella che reclama la possibilità di studiare senza sacrificio, o come quella che esclude qualsiasi tipo di fatica relazionale a scuola, a casa e domani sul lavoro. Tutte false convinzioni perché è fin troppo evidente che studiare per ottenere un buon risultato nello studio comporta fatica, sacrificio e talvolta anche qualche rinuncia. Stessa cosa possiamo dire anche quando si fa fatica a sopportare l’amico di banco perché un diverso o perché antipatico. Sono tutte situazioni che mettono a dura prova i ragazzi di qui l’importanza di trovare nell’educazione la risposta adatta alla circostanza che non possa prescindere dall’affrontare con fatica le diverse situazioni che si presentano. Ai ragazzi va insegnato che la fatica riserva anche momenti belli perché ciascuno attraverso la fatica ha la possibilità di sperimentare qualcosa di personale, che la fatica insegna ad accettare anche la sconfitta. Ciò non può mai avvenire se ci si abbandona alla logica del tutto e subito in barba all’attesa, al sacrificio. E’ pur vero che i ragazzi oggi vivono in una società dove i legami durano poco, dove vengono messe in discussione le basi per il loro futuro, dove la speranza è messa a dura prova, ma proprio per questo dobbiamo riprendere a discutere di valori e sperare in decisivi cambiamenti, accettando il consiglio di Kierkegaard, filosofo danese, quando definisce: «la speranza simile a un seccatore indiscreto di cui non ci si può liberare».

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