Europa, dalle parole ai fatti

L’agenda politica europea mantiene in primo piano il conflitto in Libia, l’arrivo di profughi sulle coste europee (se ne è discusso il 26 aprile durante l’incontro tra il premier italiano Silvio Berlusconi e il presidente francese Nicolas Sarkozy), la mobilitazione popolare e la repressione in Siria e altri paesi, la questione energetica anche in relazione all’emergenza nucleare in Giappone e nel ricordo del 25° anniversario del disastro di Chernobyl. Senza trascurare altri temi “epocali” quali l’invecchiamento della popolazione, con ciò che questo comporta sul piano sociale, lavorativo, previdenziale, sanitario; il diffondersi del populismo e della xenofobia (anche in questa chiave è stata letta la nuova costituzione ungherese da un’ampia parte dei media europei); la protezione dell’ambiente e il contrasto ai cambiamenti climatici; il diffondersi delle ultime tecnologie e dei nuovi “saperi”...

Eppure non si può trascurare il fatto che per tanta parte dell’opinione pubblica gli occhi rimangono principalmente puntati sugli effetti della crisi economica che ha rimesso in discussione tante certezze nel Vecchio continente, ha fatto traballare i conti pubblici (ne sanno qualcosa Grecia, Irlanda, Portogallo), ha lasciato sul campo un esercito di disoccupati, minando la certezza reddituale di tanti famiglie e segnando profondamente i mercati europei e non.

In questo senso i dati diffusi da Eurostat il 26 aprile portano alcune conferme e lasciano aperti numerosi interrogativi. “Il deficit pubblico s’è ridotto nel 2010 in rapporto al 2009, sia nella zona euro che nell’Ue27, mentre il debito è cresciuto”, spiega una ricerca dell’istituto di statistica dell’Unione europea. Il deficit medio di Eurolandia, rispetto al Pil, era nel 2009 al 6,3%, mentre lo scorso anno è sceso al 6,0%; in tutta l’Europa comunitaria il tasso s’è ridotto dal 6,8 al 6,4%.

D’altro canto “il debito pubblico è aumentato nella zona euro dal 79,3% della fine del 2009 all’85,1% del dicembre 2010”; per l’Ue27 si è passati dal 74,4% all’80,0%.

I deficit pubblici più alti era stati osservati in Irlanda (32,4%), Grecia (10,5%), Regno Unito (10,4), Spagna (9,2), Portogallo (9,1), Polonia (7,9). L’Italia si è fermata al 4,6%. Eurostat dedica parte della sua analisi anche ai debiti pubblici nazionali, e qui il discorso si fa più problematico per il Belpaese. “Alla fine del 2010 i più bassi livelli di debito pubblico in rapporto al Pil sono stati rilevati in Estonia (6,6%), Bulgaria (16,2), Lussemburgo (18,4), Romania (30,8)”. Ma Eurostat segnala poi i debiti più elevati, sempre in relazione al Pil, che riguardano Grecia (142,8%), Italia (119,0), Belgio (96,8), Irlanda (96,2), Portogallo (93,0), Germania (83,2), Francia (81,7), Regno Unito (80,0).

I numeri certificano che la crisi ha colpito tutti, pur con intensità modulata e con differenti ricadute sulla popolazione, ossia sull’occupazione, sui redditi, sui consumi. Nel 2011 – ma potrebbe essere presto per dirlo – la crisi dovrebbe ulteriormente diradarsi, per registrare infine nel 2012 una vera ripresa, che peraltro non cancellerà di punto in bianco il terreno (e i posti di lavoro) perduto dal 2008 in poi, quando la recessione proveniente dagli Stati Uniti ha attraversato l’Atlantico per giungere in Europa.

In questa fase l’Ue e i 27 Stati aderenti stanno approntando misure di governance, stabilità e rigore e alcune riforme per prevenire nuove crisi e per rilanciare lo sviluppo economico e occupazionale. Se alle parole seguiranno i fatti, e se i mercati non riserveranno ulteriori sorprese, si potrebbero presto misurare nuovi e positivi scenari. Ma per diversi paesi Ue, Italia in testa, il vero risanamento dei conti – premessa essenziale per lo sviluppo - richiederà ancora tempo, impegno e sacrifici.

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