È questo il maestro che sa educare

«Il maestro non è chi dice fai così, ma chi dice fai come me in un rapporto di testimonianza di fiducia, di libertà» con queste semplici parole Gilles Deleuze, filosofo francese della fine del secolo scorso, mette il tema della testimonianza al centro del problema educativo. Il maestro della testimonianza è il maestro che sa educare. Perché partire da questa premessa e perché parlare di maestro che educa anziché di maestro che insegue il programma, preoccupato di non riuscire a terminarlo entro la fine dell’anno scolastico? Il motivo è altrettanto semplice. Al docente di oggi è chiesto innanzitutto di sapersi mettere in costruttiva relazione con tutti. E quando dico tutti alludo prima di tutto agli alunni, dal momento che con loro vive gran parte della giornata, poi ai colleghi con i quali entra in costante relazione in sala prof o lungo i corridoi, ma anche sull’uscio della porta dell’aula al cambio dell’ora. Possono sembrare situazioni marginali e invece per i docenti sono momenti topici che richiamano veloci scambi di battute e di informazioni. Ci sono, infine, i genitori con i quali il docente entra in relazione periodicamente e ai quali spiega l’andamento didattico-disciplinare dei ragazzi, il loro profitto, il comportamento, la capacità di esporre contenuti, il livello di partecipazione attiva durante le lezioni, la consapevole assunzione di responsabilità in compiti e funzioni assegnate, la voglia di migliorare nel raggiungimento dei risultati tanto per citare alcuni obiettivi. Dunque stiamo parlando non solo di contenuti da trasmettere, ma di capacità, da parte del docente, di farsi amare dai propri allievi, di farsi accettare dai suoi colleghi, di farsi capire dai genitori. Le relazioni, quindi, al centro del sistema poiché ritenute essenziali ai fini del raggiungimento di certi particolari obiettivi che non sono solo di apprendimento, ma anche e soprattutto etici e quindi educativi. «Cosa devono apprendere i buoni ragazzi? – si chiede Aristippo – Ciò che gioverà loro quando siano diventati uomini – è la sua risposta». Si capisce che per Aristippo ciò che importa è fare in modo che i ragazzi quando «siano diventati uomini» siano intelligenti, educati, responsabili, pronti a confrontarsi con se stessi, con i propri limiti e con le altrui convinzioni. E’ bandita la stupidità, l’imbecillità ovvero, ad esempio, l’esercizio prediletto di quanti si divertono a distruggere opere d’arte o, peggio ancora, di quanti si divertono a gettare banane in segno di disprezzo verso il diverso per il colore della pelle. Televisione e carta stampata, negli ultimi tempi, hanno dato ampio risalto al brutto episodio vissuto con stupenda ironia dal malcapitato calciatore. Il ricordo va al gesto di Dani Alves che durante una partita di calcio, raccoglie, senza irritazione, la banana da qualcuno lanciata in segno di disprezzo nei suoi confronti mentre era impegnato a battere un calcio d’angolo. Improvvisamente il nostro calciatore si china, la raccoglie, la sbuccia e ne mangia un pezzo. Una risposta meravigliosa a suo modo rivoluzionaria che è andata al di là della rabbia che ha potuto provare e che, per certi aspetti, gli è valsa, suo malgrado, la fama di testimonial contro ogni forma di razzismo. Cosa posso dire di più? Che colui che ha lanciato la banana in campo è un cretino: e questo basta e avanza. Ha rovinato la festa, e come dice Solone: «non esiste cretino che sia silenzioso ad una festa». E ai cretini non bisogna dedicare tanta attenzione. Ecco perché gli insegnanti dovrebbero preoccuparsi maggiormente a che i nostri ragazzi siano educati a diventare uomini del domani. Un obiettivo che non richiede particolari formule da applicare, ma una naturale disposizione a trasmettere valori mediante la propria testimonianza in grado di affascinare l’allievo, di scolpire il suo animo, di farlo innamorare del sapere. Ma attenzione. Non si potrà mai raggiungere questo obiettivo se il docente non modificherà certi comportamenti che ne pregiudicano l’acquisizione. Non potrà pretendere, infatti, attenzione dai suoi allievi quel docente che in classe interloquisce, sistematicamente, alzando la voce in maniera disordinata, compromettendo così le proprie capacità comunicative pur nella convinzione di ritenere questo come l’unico metodo che gli consente di farsi capire. O pensare di risolvere i problemi educativi, ricorrendo a continue note disciplinari, a sospensioni temporanee dalle lezioni, a relazionarsi con uno sguardo truce che finisce quasi sempre per inebetire qualsiasi allievo fino a renderlo impacciato davanti a una insormontabile barriera psicologica. Né potrà salvarsi quel docente che non si prende cura della scarsa attenzione dei suoi allievi, della demotivazione allo studio quale causa prima degli abbandoni, preoccupandosi solo di portare a termine il programma. Il programma diventa così l’incubo di molti docenti come i brufoli lo sono per molti adolescenti. Un simile docente farà molta fatica a farsi amare, a mettersi in un giusto rapporto con i suoi allievi, a capire particolari segnali anche contraddittori che il più delle volte mascherano un certo stato d’animo. Sono queste le condizioni che prefigurano la messa in atto di strategie difensive tali da rendere difficile il dialogo tra insegnanti e allievi. E così che la scarsa attenzione sarà sostituita dalla preoccupazione di assegnare un certo numero di pagine da studiare a casa, di armonizzare il proprio impegno pedagogico all’effettivo riconoscimento economico, di educare alla quantità dei contenuti da assegnare piuttosto che alla qualità degli stessi. «Non multa, sed multum» ci ricorda Quintiliano a sottolineare che non è la quantità del fare che deve stare a cuore, ma la convinzione che quello che viene fatto, venga fatto bene. Nell’animo dell’allievo durerà nel tempo il ricordo del ben fatto e raramente la quantità delle cose fatte. Il desiderio prevalente di un insegnante, quindi, è fare in modo che l’alunno trovi a scuola l’occasione per diventare l’uomo del domani. Di diverso avviso appare Giulio Giorello, filosofo e matematico, secondo cui «non tocca alla scuola ammaestrare sul senso alla vita». Un concetto che non mi piace. I ragazzi non si ammaestrano, semmai si educano a capire e a interpretare, con responsabilità, la realtà per dare un senso alla vita. Io la penso così.

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