È possibile la gratuità nel lavoro?

Parlare di gratuità in riferimento al mondo del lavoro può dare adito a qualche perplessità. Chiarisco subito, a scanso di equivoci, che quando dico gratuità nel lavoro non intendo dare alcun tipo di legittimazione all’ingiusta pretesa di un datore di lavoro di ottenere prestazioni al di fuori del normale orario di lavoro senza riconoscere la giusta retribuzione. Mi riferisco piuttosto al senso e al valore del lavoro. Nel famoso libro “La forza di amare”, che contiene alcuni dei più importanti discorsi di Martin Luther King, si trova questo brano: «Noi siamo sfidati da ogni parte a lavorare instancabilmente per raggiungere l’eccellenza nel nostro lavoro. Non tutti gli uomini sono chiamati a lavori specializzati o professionali; anche meno sono quelli che si elevano alle altezze del genio nelle arti e nelle scienze: la maggior parte è chiamata a lavorare nei campi, nelle fabbriche o sulle strade. Ma nessun lavoro è insignificante. Ogni lavoro che fa crescere l’umanità ha la sua dignità e la sua importanza, e dovrebbe essere intrapreso con diligenza e perfezione. Se un uomo è chiamato ad essere uno spazzino, egli dovrebbe pulire le strade proprio come Michelangelo dipingeva, o Beethoven componeva musica, o Shakespeare scriveva poesia. Dovrebbe pulire le strade così bene che tutte le legioni del cielo e della terra dovrebbero fermarsi per dire: qui è vissuto un grande spazzino, che faceva bene il suo lavoro.» La citazione mi porta immediatamente al cuore del messaggio che vorrei trasmettere: non c’è lavoro ben fatto senza gratuità. La gratuità è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stessi, alla natura, alle cose, non per usarli utilitaristicamente a proprio vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità, per rispettarli e servirli. Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va tenuto perché è buono, e non per una sua possibile ricompensa o sanzione. Ecco perché non c’è lavoro ben fatto senza gratuità, perché essa ha bisogno non di un’etica fondata sugli incentivi e sulle sanzioni, bensì di un’etica che riconosce il valore intrinseco delle cose. La pur necessaria e non aggirabile ricompensa, monetaria o di altro tipo che si riceve in contraccambio di una prestazione, non è la motivazione del lavoro ben fatto, ma solo una dimensione, certamente importante ed essenziale, che si pone però su un altro piano. Per lavorare può bastare la buona motivazione del salario, ma per il lavoro ben fatto occorre anche la gratuità. La cultura economica capitalistica dominante, con la sua teoria e prassi economica, ha operato una rivoluzione silenziosa: il denaro è diventato il principale e spesso unico “perché” del lavorare, la motivazione dell’impegno nel lavoro, della sua qualità e quantità. È quella che potremmo chiamare la cultura dell’incentivo che si sta sempre più estendendo: ci si comporta da buoni lavoratori solo se e in quanto adeguatamente remunerati e controllati. È allora necessario recuperare una nuova fiducia nelle risorse morali e spirituali del lavoratore, che quando lavora bene prima di obbedire a incentivi e manager obbedisce a se stesso, mentre quando lavora male per otto ore al giorno per quarant’anni, è l’intera vita, personale, familiare e sociale, che non funziona. Non sempre è possibile, per tutti e per tutta la vita, fare il lavoro che sentiamo come nostra vocazione: ma nessuno può impedirci di vivere ogni lavoro come relazione e come servizio e così trasformarlo in crescita umana. Il lavoro è troppo importante per non fare di tutto per cercare di viverlo bene, che non significa assenza di fatica e di dolore, ma presenza di senso e di sviluppo di un progetto di vita. Spesso il disagio del mondo del lavoro è anche il frutto di questa cultura del lavoro che non vede nel bisogno del lavoro ben fatto la vocazione più radicale presente nelle persone che, se possono, vogliono lavorare bene, perché nel lavoro mettono la parte migliore di sé. Queste sono alcune delle ragioni che ritengo debbano indurci al dovere etico di riportare la gratuità rettamente intesa al centro del mondo del lavoro. E chissà che questo non favorisca - oltre che migliori rapporti umani e sociali - anche una riduzione, per via indiretta, della disoccupazione e con essa del dramma di quanti purtroppo il lavoro non ce l’hanno.

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