Quando, sessant’anni fa, passammo da un’epoca di ristrettezze e privazioni a quella del consumo ben oltre l’essenziale, tanti pensarono all’esordio di un’era felice, nella quale ognuno avrebbe avuto il giusto, affrancandosi, finalmente, dall’indigenza e dalla fatica. Poter comprare un paio di scarpe l’anno, sembrò essere una conquista legittima; un balzo in avanti in direzione di un benessere mai prima provato, di un progresso fino ad allora forse immaginato, di un meno sofferto futuro per chi doveva ancora venire.Insieme alla novità, allargata a tutti i settori del “vivere civile”, si fece strada la “cultura dell’usa e getta”, salutata da approvazioni unanimi ed incondizionate. Finalmente, si pensò, ci si poteva liberare del “vecchio”, dell’”usato”, dell’“anticaglia”, senza più essere costretti al rappezzo, al riciclaggio. Rispondendo ad impulsi ingenuamente scambiati per liberatori, la casalinghe smisero di adoperare le borse di tela per la spesa, trovando più comodi e pratici gli “shoppers” di plastica, mentre gli uomini abbandonarono pennelli, rasoi, e cinghie di cuoio per rigenerarne il filo, “scoprendo” la schiuma pressurizzata, la “Gillette”ed il “dopo barba” profumato. La fantastica “Parker” a 18 karati, ricevuta in regalo per la prima comunione, cui, a seguito delle prime pulsioni adolescenziali, sarebbe stata affidata la composizione in bella grafia di un messaggio amoroso per una coetanea, sparì in fondo ad un cassetto, definitivamente sconfitta dalle magiche sferette dei fratelli Biro. I giovani degli anni settanta, smisero di indirizzare speranzose occhiate al massiccio Zenit d’oro o al più snello Longines che da bambini avevano ammirato nel taschino del gilet d’un anziano congiunto. I moderni orologi a cristalli liquidi con i bracciali di acciaio erano più attraenti, non necessitavano di ricarica e potevano essere sostituti ogni qual volta lo si desiderasse. Nelle confezioni delle camicie non furono più inclusi polsi e colletti di ricambio. Sparì la saggia usanza di trasformare quelle dismesse in stracci per spolverare e sparì anche il mestiere della camiciaia. Più avanti gli apparecchi telefonici in bachelite con il combinatore a ruota, messi in bella mostra sul tavolino in salotto, furono prima sostituiti dai più sofisticati “cordless”con i led perennemente accesi, e poi dai cellulari con fotocamera e collegamenti al Web. I ragazzini che volevano emulare Careca, Mazzola e Rivera, presentandosi agli allenamenti con scarpette bullonate, calzettoni con i colori sociali, magliette con il nome sovrascritto, si abituarono ai cestoni, dietro le porte del campo ben rasato, colmi di decine di palloni con i marchi dei produttori e non furono più costretti ad inseguire, per il campo polveroso, l’unica sfera di cuoio con la cucitura, il cui impatto, per l’invitante colpo di testa, si trasformava in un’acuta fitta occipitale. Percorsi paralleli, pur con qualche diversa sfumatura addebitabile a differenti culture e tradizioni, si dipanarono in tutta l’Europa Occidentale postbellica. Che l’introduzione della filosofia consumistica portasse sviluppo, lavoro, aumento del reddito pro capite ed un generale innalzamento delle condizioni di vita, non lo si vuole ora mettere in discussione. Ben lontana, inoltre, l’utopia di un ritorno al passato che solo qualche asceta sognatore ancora adesso vagheggia. Ciò che risulta contestabile è l’aver ritenuto che tale modello potesse essere considerato esclusivo ed illimitato e che l’unico obiettivo perseguibile dovesse essere quello della “crescita”, senza minimamente pensare che anche gli altri due terzi della popolazione mondiale potessero averne sacrosanto diritto, poiché contitolari delle comuni risorse saccheggiate e dilapidate in precari utilizzi al limite del superfluo e dello spreco. Adesso, nel mondo “civilizzato” tutto viene misurato in termini di incrementi con numeri a molti zeri. Appena ieri si consumavano nel mondo ottanta milioni di barili di petrolio al giorno? Oggi cento. Il traguardo dei due milioni di nuove autovetture immatricolate ogni anno in Italia mostra qualche flessione? Facce scure, proteste e manifestazioni di piazza. Cento milioni di tonnellate di etilene (di cui un quarto solo negli USA) venivano già prodotte nel 2000? Oggi è alle viste il raddoppio. Il miliardo di utenze Internet è stato sorpassato di slancio da quasi due lustri? Si punta già ai due miliardi. Il fabbisogno elettrico italiano è cresciuto dieci volte dal 1950? Costruiamo altre centrali, possibilmente nucleari. Se qualche testa d’uovo (così viene in senso dispregiativo considerato in certi ambienti il ricercatore serio) lancia l’allarme del riscaldamento planetario, probabilmente imputabile all’eccessivo impiego di combustibili, s’alza sprezzante la replica dei negazionisti che lo definiscono fantasia terroristica. Se qualche benpensante afferma che al problema dei rifiuti sarebbe stato necessario porre mente trent’anni fa, c’è chi, ancora adesso, pensa solamente a reiterarne la trasformazione in una fonte di biechi, enormi ed illeciti guadagni. Se l’unico premio Nobel scientifico italiano degli ultimi quarant’anni, lancia nuove idee e sollecita più attenzione per la ricerca e per l’innovazione intelligente, solo per ipocrita decenza non gli si risponde con il classico “pernacchio” di edoardiana memoria. Se un gruppuscolo di cittadini esprime preoccupazione per lo scempio del territorio, strappato alle colture ed alla biodiversità, viene, più o meno palesemente, sbeffeggiato dalle lobbies del potere politico, sindacale ed economico nei cui pensieri c’è solamente il tornaconto personale, il privilegio, il profitto ed il Pil. La voce di chi sollecita aiuti concreti e non “regalie” per chi non ha nulla all’infuori della vita, si disperde nel frattempo, tra indifferenza ed egoismi, dentro interminabili conferenze senza costrutto. All’indomani della seconda guerra mondiale, pochi sarebbero stati in grado di intuire che il “nuovo”, appena iniziato, potesse nascondere insidie di tale consistenza da trasformarsi, nel breve volgere di mezzo secolo, in una serie di problemi a matrice sociale, economica, culturale e strutturale, estremamente complessi. Porre mano a sensati tentativi per la loro soluzione, sembra non essere, peraltro, un obiettivo istituzionale, né italiano, né, men che meno, europeo. Eppure i segnali, che suggeriscono la necessità di un cambiamento di rotta, indicando i relativi strumenti per realizzarlo, non mancano. Un comune cittadino li vede ed anche abbastanza chiaramente. La gran parte di coloro che pretendono di rappresentarci, forse troppo impegnati a cercare l’insulto più efficace, non mostrano di essere in possesso delle giuste “lenti”. Eppure l’ottica e l’oculistica hanno fatto progressi giganteschi!
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