È caduta la maschera del dittatore

di Riccardo Moro

E alla fine la “Guida fraterna della Rivoluzione” ha gettato la maschera e si è rivelato per quello che è: un dittatore sanguinario e vile. Dopo aver fatto sparare contro la folla nei giorni scorsi, con un bilancio che secondo tutte le fonti non ufficiali è intorno ai 200 morti, ieri notte ha presentato alla tv libica non la sua faccia, ma quella del figlio maggiore.

Saif Gheddafi ha parlato per quasi un’ora, come se la televisione fosse sua, parlando come si parla a dei bambini che si sono comportati male, alternando la dolcezza alla severità e alle minacce. Ha accusato i media, le forze stranieri e gli islamisti di falsare la verità. Ha rimproverato la televisione libica di non avere raccontato correttamente le proteste della gente. Ha accusato Al Jazeera, Al Arabjia e la BBC di non dire la verità, spiegando con dolcezza che i morti a Bengasi erano ‘solo’ 14 e non 84, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. Ha ammesso che l’esercito non aveva fronteggiato correttamente la situazione, ha riconosciuto con garbo che erano necessarie riforme e ha insistito a lungo sul rischio di dividere il paese. Ha detto che il merito di suo padre era stato quello si unire e dare orgoglio alla nazione, mentre le proteste porterebbero alla frammentazione in piccoli emirati.

Si perderebbe la gestione del petrolio che oggi “è la nostra ricchezza, ci nutre e ci permette di avere le scuole”. Con la divisione chi amministrerebbe il petrolio? chi garantirebbe che i proventi dei giacimenti – che si trovano in parte significativa a Est, nella zona di Bengasi - siano distribuiti a anche in favore delle popolazioni dell’Ovest – dove si trova la capitale Tripoli? Poi è diventato più severo: ripetendo ossessivamente che la Libia non è l’Egitto né la Tunisia, con lunghe pause nel discorso e continui cambi di tono, ha detto che i capi militari gli hanno raccontato i fatti reali e che i manifestanti erano solo teppisti in preda alla droga e ha chiesto “Tocca a voi scegliere: benessere o caos?”. Quindi ha ammonito. “L’esercito è forte, ristabiliremo l’ordine. La mia famiglia ha cacciato gli italiani per rendere indipendente il paese, ora non lo lascerà nel caos”. In un delirio sempre più incontenibile ha minacciato: “L’esercito è con mio padre Muammar Gheddafi, centinaia di migliaia di persone sono con noi. Non lasceremo il paese. Combatteremo sino all’ultimo proiettile, sino all’ultimo uomo”.

Che si può dire di un discorso così? Sono le parole di chi ha paura, una paura mortale. Il potere di Gheddafi si basa sull’equilibrio di poteri fra le ‘tribù’ che compongono il paese, ottenuto pagandole col petrolio. Come abbiamo già scritto la situazione del potere in Libia è analoga a quella costruita in Tunisia. Tutta l’economia è nelle mani della famiglia del rais, la democrazia non esiste, la struttura di potere è alimentata e garantita comprando le persone col denaro. La stampa, a differenza dell’Algeria non è libera e il dibattito è impossibile. Ma nessuno oggi può fermare il vento dei nuovi media, nemmeno il blocco totale di internet o le continue interruzioni del segnale telefonico cellulare. Così l’effetto domino del Maghreb ha raggiunto la Libia ed è saltata la ‘pace’ con le tribù.

Da quanto si capisce, attraverso le notizie frammentarie che arrivano dal paese, le tribù della zona di Bengasi hanno abbandonato Gheddafi e altrettanto avrebbero fatto molti militari. Per questo l’insistenza sul pericolo di dividere il paese in tanti piccoli emirati e il riferimento all’Est ricco che non sarebbe più solidale coll’Ovest povero. Il rais ha paura e fa di tutto per tenersi stretto con la paura almeno l’Ovest. Suo figlio ripete mille volte che l’esercito è unito e non parla di ‘proteste’ ma di ‘guerra civile’ perché evidentemente le defezioni sono consistenti e la ‘inevitabile’ reazione dei Gheddafi troverebbe i militari divisi fra i due campi, col rischio di creare una vera guerra interna, condizione che negli altri paesi del Maghreb non è avvenuta. La minaccia di colpire con le armi fino all’ultimo uomo, dismettendo definitivamente i vestiti di padre affettuoso dei suoi sudditi, rivela il terrore di lasciare il paese. Qualunque destinazione renderebbe Gheddafi vulnerabile al rancore di chi non gli ha perdonato il passato, quando era il principale finanziatore del terrorismo.

I toni melliflui e le minacce di Saif sono insomma l’urlo disperato di chi sente vicina la fine. La caduta del rais è infatti inevitabile. Ciò che non è prevedibile è la durata dell’agonia, né quante vite ancora costerà. Forse saranno ancora numerose. Peseranno moralmente anche su chi ieri accoglieva il rais con tutti gli onori, offrendogli la legittimazione politica che toglieva libertà e spazio a qualunque opposizione interna. Chi porta questa responsabilità ci risparmi almeno oggi la penosa immagine di chi cerca di attribuirsi meriti insistenti, come il convincere il rais alle riforme costituzionali o a farsi ‘responsabilmente’ da parte.

di Riccardo Moro

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