E adesso tocca agli insegnanti

Non sono buone, per i docenti, le notizie che arrivano dal Ministero, tuttavia vanno considerate in un contesto sociale profondamente cambiato negli ultimi anni e forse allora qualche provvedimento legislativo potrebbe avere una sua comprensione, ma non può certo essere considerato razionale agli occhi degli addetti ai lavori. Vediamo perché. Con la legge di stabilità 2012 (la legge ex finanziaria), varata recentemente dal Consiglio dei Ministri, i docenti dal prossimo anno scolastico si vedranno aumentare considerevolmente il monte ore di lavoro settimanale che da 18 passa a 24. E’ il solito «do ut des» suggellato da una contropartita feriale. Ovvero più ore di lavoro compensate da 15 giorni in più di ferie da usufruire, comunque, durante l’estate o in periodo di interruzione dell’attività didattica (Natale, Pasqua, e le feste comandate). Di aumento salariale neanche a parlarne. Anzi. A rendere ancor più indigesta la pillola governativa, è bene ricordare che è stato confermato il blocco del rinnovo contrattuale a tutto il 2014 e che, per lo stesso periodo, non sarà riconosciuta la vacanza contrattuale. E’ proprio il caso di dire: mala tempora currunt (per i docenti). La notizia, com’era da aspettarsi, ha sollevato un vespaio di reazioni a catena. Docenti, sindacati e associazioni di categoria si sono affrettati a definire inaccettabili le proposte ministeriali poiché in contrasto con il contratto nazionale. E’ la solita storia. Il governo si dimostra forte con quella che oggi viene considerata la categoria professionale più debole, più esposta sul fronte sociale, più a rischio culturale dal momento che nessuno è disposto a scendere in campo a difenderla. Una critica rivolta anche ai sindacati più che mai indeboliti nella stessa forza contrattuale. Certo sono lontani i tempi in cui le maglie del pubblico impiego in generale e della scuola in particolare erano alquanto larghe. Basti pensare alla doppia docenza di qualche materia le cui lezioni venivano impartite per gruppi di alunni e non per singole classi. Ma lontanissimi nel tempo sono anche le grandi lotte sindacali che riuscivano a mettere in ginocchio il sistema scuola fino a ottenere cospicui riconoscimenti giuridici ed economici. Oggi le condizioni finanziarie non consentono certi lussi. Si sottolinea che tutti debbono fare la propria parte per affrontare un periodo di profonda crisi economica e sociale. Un invito erga omnes, che ha una sua ragion d’essere e che richiede una particolare comprensione. A stringere la cinghia non sono stati chiamati solo i lavoratori della scuola, ma l’intero comparto del pubblico impiego che sta pagando un conto alquanto salato. Stessa cosa avviene nel privato. Viene da più parti sottolineato come in un tempo di forte crisi economica e sociale vorremmo vedere esempi più edificanti per dare un particolare e credibile significato a un periodo di austerità. E invece dobbiamo sopportare e digerire fatti e misfatti moralmente offensivi, vieppiù diretti verso una categoria professionale maggiormente esposta a una sorta di usura sociale anche se ritenuta erroneamente fruitrice di condizioni privilegiate. Forse esagero, ma per rendere l’idea dei tempi in cui viviamo, credo sia opportuno ricordare Eraclito di Efeso, un filosofo un po’ strano, arteriosclerotico, per lo più incomprensibile nelle sue elucubrazioni, eppure in una situazione sociale simile alla nostra di oggi, ha dato un chiaro esempio di come è possibile contribuire, ognuno per quello che può dare, a meglio capire il significato di crisi economica. Ebbene sapere che anche la florida Efeso visse un brutto periodo di crisi economica. Scarseggiavano gli alimenti e molti suoi abitanti soffrivano la fame. Eraclito volle contribuire a suo modo a incoraggiare gli efesini. «Si presentò davanti all’Assemblea del popolo – ci racconta Diogene Laerzio - e senza proferir parola, prese dell’orzo tostato, lo mescolò con l’acqua e se lo mangiò seduto in mezzo a loro». Un gesto che fu apprezzato dai suoi concittadini. Chissà se prima o poi avremo la fortuna di vedere qualche nostro personaggio pubblico in televisione fare la stessa cosa invece di dedicarsi, in periodi di crisi, a «magnà ostriche e bere champagne». Non lo so! Eppure sarebbe un «beau geste» che restituirebbe probabilmente integrità morale e autorevolezza anche al più compromesso dei cittadini. Intanto, però, la situazione e ben diversa. Il Ministro Profumo è ora molto conteso da giornali, radio e televisioni invitato a fornire i dovuti chiarimenti a una novità che sa di rivoluzionario come la scuola che si vuole cambiare. Emerge, così, un quadro sempre più complesso e comunque vicino a quello che è l’idea di scuola del terzo millennio. Una scuola sempre più attenta alle nuove esigenze formative intrecciate a quelle sociali. L’idea, dice il Ministro, è quella di «pensare a strutture più aperte con spazi di socializzazione, al fine di promuovere attività pomeridiane e anche serali». Non c’è che dire. Siamo di fronte a una concezione di scuola che ridefinisce quella più tradizionale. Dobbiamo forse farcene una ragione? Intere generazioni sono cresciute nella scuola vista come luogo di cultura, educazione e formazione, attenta alla promozione di processi di apprendimento finalizzati al proseguimento degli studi universitari o propedeutici all’inserimento nel mondo del lavoro. Ora invece siamo chiamati tutti a impegnarci per una scuola più aperta ai cambiamenti sociali, strategicamente più rispondente ai nuovi orizzonti relazionali, più vicina alle pratiche studentesche, ma forse didatticamente ancora lontana da una nuova impostazione professionale che vuole il docente forse meno pedagogo, ma più «organizzatore di conoscenze». Personalmente non ho mai visto di buon occhio una scuola ritenuta dai genitori e vissuta dagli studenti come un centro civico a dimensione sociale. E’ pur vero che il mondo che si apre ai giovani è sempre più simile a un villaggio globale che richiede competenze e preparazione senza delle quali si rischia di rimanere ai margini dei cambiamenti culturali ed economici. Sono convinto che spetta ad altri il compito di sviluppare strategie aggregative, passando da posizioni intermedie predeterminate, però, dal lavoro fatto a scuola. Una scuola che a mio avviso dovrebbe continuare a rimanere ancorata alla sua impostazione didattica e pedagogica senza andare oltre. Il Ministro ritiene, invece, la scuola pronta al salto. Ma lo sono gli insegnanti?

© RIPRODUZIONE RISERVATA