Quando parliamo di bene e male spesso li consideriamo, non a torto, dei valori, ma forse dobbiamo abituarci a dare concretezza ai concetti astratti e allora ci viene più facile dire che ci sono comportamenti buoni e comportamenti cattivi. Nel qual caso ognuno deve avere il buon senso di assumersi le responsabilità sia che si affidi a comportamenti buoni sia che si affidi a comportamenti cattivi. Tutto gira attorno alle proprie azioni, a cosa facciamo e a cosa non facciamo o facciamo male. Se questo vale per tutti, come regola generale, a maggior ragione deve valere per gli insegnanti che quotidianamente hanno di fronte alunni che, piccoli o grandi che siano, prima osservano, imparano poi assimilano e mettono in pratica. Ecco perché i comportamenti di chi è chiamato a educare, contano e molto soprattutto quando si è circondati da ragazzi in classe come in oratorio, in attività di volontariato o come allenatore di una squadra giovanile. Del resto dagli stessi comportamenti dipendono gli esiti che si concretizzano in conseguenze per gli altri. Questa breve premessa per capire a fondo il significato di autorevolezza messo in prima pagina dal Corriere della Sera in un recente articolo a firma di Silvia Vigetti Finzi, Pedagogista, autrice di numerose pubblicazioni, attualmente docente di Psicologia Clinica presso l’Università di Pavia. La scuola torna a essere considerata una delle occasioni primarie dove sono in gioco i grandi valori che devono accompagnare la crescita dei ragazzi. Un docente per essere autorevole agli occhi dei propri studenti, deve saper comunicare, deve saper trasmettere, deve saper mostrare il meglio della sua personalità. Un’opera certamente non facile anzi il più delle volte capita di vedere insegnanti scivolare in situazioni a rischio, tale da mettere in dubbio la stessa capacità di insegnare. Quante volte capita di avere a che fare con docenti che cercano in tutti i modi di spiegare, con dovizia di parole, la bellezza di un brano poetico o il mistero di una riflessione o il contenuto di una formula senza riuscirci? Questo vale anche quando il dialogo in classe prende le mosse dal racconto della propria esperienza di vita. Un racconto che, talvolta, si fa sterile poiché non sa suscitare interesse o emozioni in chi ascolta, perché il tutto è affidato a un comportamento che finisce col mettere tutto in discussione. In questi casi la comunicazione è destinata al fallimento. E su simili esempi la scuola è fortemente esposta. A rendere ragione di questo ci sono le numerose testimonianze che la cronaca affida ai media o alla carta stampata. E allora sappiamo di docenti che in classe non mancano di parlare del proprio gatto fuggito di casa, o del cane che perde continuamente il pelo. Di docenti che ricordano il divieto di usare i cellulari in classe, mentre non lasciano occasione di rispondere al telefonino, ostentatamente esposto sulla cattedra, raccomandando ad alta voce l’interlocutore, di passare dal panificio per comprare il pane. O di docenti che continuano a ricordare ai ragazzi il divieto di fumare nei locali della scuola, mentre presi dalla voglia spasmodica di una «boccata» di nicotina, lasciano la classe per una «salutare fumatina» assaporata sull’uscio della porta d’ingresso. Di docenti che preferiscono invitare ad uscire dall’aula certi studenti perennemente distratti piuttosto che cercare le ragioni di una deludente motivazione allo studio. Di docenti che ricordano come gesto di buona educazione quello di non mangiare durante le lezioni mentre tirano fuori dal cassetto della cattedra il classico involucro in carta stagnola contenete un frutto (sempre meglio che uno snack al cioccolato), quasi che una mela o una pera non facciano parte delle salmerie nutrizionali. E che dire di quei docenti che occupano gran parte dell’ora - dopo essere caduti nella trappola tesa dagli stessi studenti, ottimi conoscitori della sensibilità narrante di chi siede in cattedra - a parlare di vizi privati e pubbliche virtù che nulla hanno a che fare con i contenuti di una lezione da trasmettere. Sono solo alcuni dei pochi, ma significativi esempi che mettono in discussione il concetto di autorevolezza. Siamo di fronte a specifiche contraddizioni che indeboliscono l’autorevolezza per trasformarla in debolezza, in errore. Direbbe Parmenide: «se la verità è l’essere, l’errore è il non essere» e allora quest’ultimo non dovrebbe esistere e invece nel caso di certi insegnanti esiste eccome. Talvolta si ha la sensazione di trovarci di fronte a docenti che vivono in una realtà fatta di regole da rispettare e da far rispettare, ma il più delle volte qualcuno dimentica queste regole per crearsene delle nuove, anche se in aperto contrasto con quelle esistenti e da tutti riconosciute. Quanto cammino c’è ancora da fare. L’immagine del cammino vuole sottolineare quanto lungo e difficile sia il delicato compito educativo. E’ nell’educazione la forza del riconoscimento della proposta formativa. Perché educare significa anche formare colui che sarà l’uomo del domani. Un uomo che in virtù del libero arbitrio dovrà scegliere tra ciò che si può fare e ciò che non è possibile fare; tra ciò che è bene e ciò che è male. Fino a quando avremo docenti che «predicano bene e razzolano male», ci sarà sempre il rischio di trasmettere non certezze ma contraddizioni, non valori etici, ma comportamenti discutibili. E nei comportamenti discutibili non potrà mai trovare ragione di essere quell’autorevolezza tanto necessaria quanto ricercata per ricostruire un importante rapporto di fiducia tra chi educa e chi viene educato. L’autorevolezza richiede innanzitutto coerenza se si vuol dare senso al messaggio che si vuole trasmettere. E’ questo, forse, l’errore più madornale che compiono tanti docenti, tanti adulti, tanti genitori che si trasformano, talvolta per scelta, talvolta per strategia relazionale, in grandi amici anziché in bravi educatori. La confusione dei ruoli, il cattivo esempio e la mancanza di coerenza sono tra le cause principali che contribuiscono ad affossare ogni tentativo di restituire autorevolezza agli adulti che spesso preferiscono imporsi scivolando in atti di autoritarismo, aggiungendo, così, errore ad errore.
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