Diventeremo un Paese di anziani?

Gli studiosi più attenti alle dinamiche sociali, sono concordi nel ritenere che siano due i fattori più inquietanti che cambieranno sempre di più la società: la crisi della natalità e l’invecchiamento della popolazione. Sono due fenomeni interconnessi, favoriti da vari fattori e che trovano la loro sintesi nella crisi dell’istituto familiare che si vive in tutt’Europa. Senza una politica di aiuto e sostegno vero alla famiglia, è difficile che si possa recuperare il problema del cosiddetto rimpiazzo generazionale. Rinunciare alla maternità e alla paternità, considerare la famiglia un’istituzione superata, disperdere il patrimonio costituito da quel sapere antico e saggio costruito da chi è avanti negli anni, sono conseguenze di un atteggiamento culturale deleterio che ha inciso profondamente nella società europea.In questo contesto, è altrettanto difficile che l’aumento del numero delle persone anziane - che porrà problemi sempre più complessi da gestire in termini di welfare e relativamente al comparto della salute - possa essere considerato una risorsa per l’intera società. In Italia, gli anziani sono quasi il 20% della popolazione. Tra una decina d’anni un italiano su quattro avrà più di 65 anni. Nel 2050 sfioreranno il 35%. Reca il titolo “La crisi sociale del Mezzogiorno”, l’ultima indagine del Censis relativa al Sud e contiene un dato allarmante sull’invecchiamento della popolazione: da qui al 2030, nel Sud, la percentuale di popolazione anziana aumenterà a ritmi più elevati rispetto al resto del Paese. “La questione sociale della longevità - sostiene il Centro di ricerca - transiterà dai territori del Centro-Nord alle regioni meridionali”. Si stima che entro i prossimi 17 anni il totale dei residenti nell’area del Mezzogiorno sia destinato a ridursi del 4,6 per cento, mentre la media del Paese segnerà più 3,7 per cento. La percentuale di over 65 registrerà in entrambi i casi un aumento, ma nel Sud la crescita sarà più consistente (più 35,1 contro il più 31,4 per cento della media nazionale).Con l’invecchiamento della popolazione, aumenteranno le malattie cardiovascolari, i tumori, le patologie croniche legate all’età, il diabete e le malattie metaboliche. Il peso delle malattie croniche, che già oggi colpiscono il 25% della popolazione e rappresentano il 70% della spesa, inciderà sempre di più sul bilancio del sistema sanitario. A livello Paese, si stima che nel 2045 gli ultrasessantacinquenni saranno il 30% della popolazione e gli ultraottantenni il 12%. Per gli ultrasettantacinquenni è di quasi dieci anni la prospettiva di vita in condizioni di disabilità. Dei 2,5 milioni di disabili presenti in Italia, ben 900mila sono di fatto confinati in casa vivendo in strutture che, per le barriere architettoniche esistenti, non consentono il loro agevole spostamento. Già oggi nel Sud - dove i modelli organizzativi sono obsoleti e quindi a elevati livelli di spesa corrisponde una bassa qualità dei servizi erogati - non mancano situazioni di estrema inefficienza. In base ai dati del rapporto Istat 2012, i livelli qualitativi dei servizi sanitari al Sud sono inferiori al resto del Paese, nonostante l’enorme dispendio di risorse pubbliche ad essi destinati che costituiscono un’ipoteca sui bilanci delle Regioni. Nel 2010, il Servizio sanitario nazionale ha speso 111.168 milioni di euro, pari a 1.833 euro pro capite. A livello regionale, esiste uno scarto di circa 500 euro pro capite tra la provincia autonoma di Bolzano, che spende mediamente 2.191 euro per ogni residente e la Sicilia, che ne spende 1.690. I principali squilibri tra regioni si osservano, in particolare, per i servizi preposti alla presa in carico di pazienti cronici, degli anziani, dei disabili. Il governo della qualità e quantità della spesa sanitaria rappresenta una condizione necessaria anche per l’applicazione della legislazione sul federalismo fiscale, se è vero che ben tredici Regioni registrano un disavanzo di gestione. I costi operativi sono così profondamente diversificati nelle Regioni e il criterio della “spesa storica”, che è ancora oggi alla base del riparto del Fondo sanitario nazionale, risulta sempre più insopportabile per i cittadini che vivono nelle aree caratterizzate da maggiore efficienza. Anche per la spesa socio-assistenziale si registra una profonda cesura tra le varie aree del Paese. Se nelle aree più efficienti si è realizzata una adeguata integrazione tra servizi sociali, sanitari e assistenziali, nel Centro-Sud essa è gestita prevalentemente dagli Enti locali, con enormi problemi che vengono registrati quotidianamente nella loro drammaticità.Il Censis sottolinea che oggi nel Sud la cura dei non autosufficienti è riservata soprattutto alla famiglia. A fornire il servizio sono in gran parte le figlie (responsabili della cura nel 36% dei casi contro la media nazionale del 25) e questo dato certamente non giova all’occupazione femminile e all’aumento di reddito familiare di cui le Regioni meridionali avrebbero bisogno. A parere del Censis, questo modello in futuro non potrà più funzionare, per due ragioni: il fatto che si fanno meno figli e l’impossibilità di aumentare gli investimenti, a causa della crisi economica, al fine di costituire una “rete di offerta” adeguata. Per il Censis occorrerà immaginare un’altra soluzione: le risorse disponibili (costituite prevalentemente dai Fondi di coesione comunitaria 2014-2020) dovranno “sfuggire alla logica della microdistribuzione a pioggia per essere incanalate verso la formazione di filiere integrate”. Anche facendo così, non sarà possibile annullare il divario con le strutture già presenti nelle aree più sviluppate, ma bisognerà mettere insieme “imprese sociali, nuove professioni, nuove tecnologie, nuove modalità di erogazione dei servizi, per fare del Meridione il laboratorio di un nuovo welfare di comunità”.

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