Manca solo il parere di sensitive e cartomanti per aggiungere gli ultimi tasselli morbosi alla ricerca dell’assassino di Melania, al secolo Carmela Rea, la donna scomparsa il 18 aprile scorso e poi ritrovata uccisa in un bosco. A quasi un mese dal suo assassinio gli inquirenti non sembrano ancora aver imboccato la pista decisiva, oppure – se la stanno seguendo – cercano di tenerla riparata dagli sguardi indiscreti delle telecamere e dalla crescente pressione mediatica.
In compenso i mezzi di comunicazione hanno messo in campo tutta la loro potenza di fuoco, infilandosi nei dettagli più nascosti della vita della donna e riservando al marito Salvatore Parolisi un trattamento ambivalente: prima lo hanno ascoltato in ogni possibile occasione, dando ampio spazio alle sue dichiarazioni e alla sua autodifesa nel momento in cui i sospetti lo accerchiavano, poi hanno cominciato a evidenziare tutte le incoerenze delle sue versioni e a cercare tutti i possibili particolari che potessero inchiodarlo alle sue eventuali responsabilità nell’omicidio della moglie.
Cambiano i protagonisti ma non cambiano le strutture di base di un copione collaudato e cinico che vede anche stavolta le testate informative protagoniste nel fagocitare le più tragiche vicende di cronaca a scopi spettacolari. Il valzer dei presunti esperti è musica già sentita, come già visti sono i larghissimi spazi dedicati ad “approfondire” il caso con il parere dei luminari in campo forense, medico, psicologico, legale e sentimentale.
Tra i momenti peggiori di questo teleromanzo noir che dura ormai da qualche settimana, meritano una citazione negativa l’intervista fatta dallo staff di “Chi l’ha visto?” (RaiTre) a Salvatore Parolisi nelle ore immediatamente successive al ritrovamento del cadavere della moglie e il “faccia a faccia” con la madre di lei, un paio di settimane dopo, da parte di un inviato dello stesso programma.
Nel primo caso si è trattato di un indebito palcoscenico per l’autodifesa di un uomo che potrebbe anche essere il colpevole, nel secondo si è assistito all’ennesimo episodio di sciacallaggio mediatico dei sentimenti di una persona già provata dal dolore per l’assassinio della figlia.
Mentre la tv infieriva, sulla carta stampata si è sviluppato il cliché tipico delle storie da libro giallo, a partire dalla classica dicotomia tra la bella e la bestia che l’ha brutalmente uccisa.
Loro malgrado, i due protagonisti principali sono personaggi facilmente connotabili: Carmela, detta Melania, mamma ventinovenne dal fisico statuario, capace di farsi notare per la sua bellezza; Salvatore, caporalmaggiore dell’Esercito, palestrato e aitante, capace di fare strage di cuori fra le soldatesse affidate al suo addestramento. Intorno, un giro di parenti, amici, amiche (di lui), possibili gelosie e presunte vendette.
Un classico del genere anche il consueto doppio livello della biografia di questa giovane coppia, in apparenza felice e innamorata intorno alla figlioletta di 18 mesi, in realtà attraversata da liti, sospetti e legami sentimentali extraconiugali. Questi ultimi, secondo le ipotesi più accreditate, sarebbero stati la scintilla per lo scoppio del raptus omicida da parte di chi ha posto fine alla vita di Melania prima con impeto irrefrenabile e poi con astuzia nella successiva messinscena per confondere il lavoro degli inquirenti.
Storie come questa, in cui allo choc del sangue versato per morte violenta si aggiungono torbidi intrecci sentimentali, sono di larga presa sull’emotività popolare. Se poi si aggiungono, di giorno in giorno, particolari non chiari, nuove scoperte, rivelazioni inattese e tutto ciò che può alimentare il fuoco del sospetto, si crea quell’efficace mix emotivo e spettacolare di contenuti capaci di suscitare l’attenzione e la tensione del pubblico verso qualunque ulteriore sviluppo della storia.
Se è comprensibile la naturale curiosità umana verso un omicidio, non è giustificabile la morbosa speculazione mediatica che intorno a esso si sviluppa nelle cronache che indugiano sui particolari più macabri come il numero e la posizione delle coltellate sul corpo della donna, la siringa conficcata sotto il seno, la svastica incisa sulla coscia, i minuti intercorsi fra l’aggressione e la morte... Elementi che senz’altro possono essere utili a indirizzare le indagini verso la soluzione ma non a dare un’informazione “migliore” su quello che è successo.
Ancora una volta, come nei recenti casi di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio, la vittima è vittima due volte, sia perché è morta per mano di un assassino, sia perché intorno a lei e alla sua tragica fine si scatena una spettacolarizzazione che non serve a restituire la verità dei fatti ma a tenere il pubblico incollato alla scena.
© RIPRODUZIONE RISERVATA