Da dove occorre ripartire

Caro direttore, ho letto con interesse e preoccupazione il suo editoriale di sabato scorso, intitolato “Per chi suona la campana”. Con interesse, perché è rara, di questi tempi, una disamina tanto lucida quanto appassionata. Con preoccupazione, perché temo abbia ragione da vendere. Mi consenta tuttavia di aggiungere alle sue, il carico di riflessioni che la sua analisi ha suscitato in me. Prima riflessione: dovremmo smetterla di dare alle difficoltà di questi anni la nomea di “crisi”. Una denominazione, questa, che ne sottintende la transitorietà, in seguito alla quale tutto tornerebbe come prima. Con lo Stato che ricomincia ad erogare risorse agli enti locali. Con i fax delle nostre piccole imprese che ricominciano a funzionare e a ricevere ordini. Con le banche che tornano ad erogare credito come nel 2007. Con la disoccupazione che diminuisce. Con i consumi che ripartono. Non sarà così. Sono convinto che questa sia una fase di profonda e duratura trasformazione delle nostre economie locali e delle nostre forme di convivenza. Senza uscita, quindi, se non attraverso l’adattamento a questo mutato ambiente. Che non è a priori ameno o ostile, ma semplicemente nuovo. In questa fase di profonda ridefinizione degli assetti (perlomeno) nazionali e continentali sarebbe ingeneroso, oltre che inutile, caricare gli enti locali di responsabilità. Tuttavia, sono convinto che molte delle difficoltà attuali del lodigiano siano frutto non del crac di Lehman Brothers e di ciò che ne è seguito, bensì di un atteggiamento complessivamente sbagliato nell’affrontare i temi dello sviluppo territoriale. Lei, giustamente, ricorda la battaglia per l’autonomia amministrativa, iniziata nel 1965 e combattuta con tenacia per trent’anni. Una battaglia che – giusta o sbagliata che fosse – era frutto di un’istanza del territorio, della sua voglia di uscire dal limbo della marginalità, di essere protagonista e artefice del proprio destino. Io non ho memoria di quella battaglia, se non in pochi e lontani ricordi d’infanzia. Allo stesso modo, però, non ho memoria di nient’altro di analogo, dal 1995 ad oggi. Al contrario, abbiamo costantemente subìto la volontà altrui. Quella dei grandi gruppi energetici, che nella nostra frammentazione comunale e nella nostra scarsa densità abitativa hanno visto il terreno fertile per insediare nuove centrali a turbogas, i cui effetti sulla nostra salute incutono ancora oggi grande preoccupazione. Quella degli attori della logistica e della Grande Distribuzione Organizzata, alla ricerca di aree a basso costo in cui insediare i loro capannoni e i loro ipermercati, nella “Provincia più infrastrutturata d’Italia”. Quella, fortunatamente rispedita al mittente, di chi voleva costruire a Senna Lodigiana, nell’ansa del Po, la più grande discarica d’Europa. Quella della grande finanza, cui abbiamo ceduto senza fiatare, per ben tre volte la prima banca popolare sorta in Italia (una volta a Fiorani e ai suoi sogni di grandezza, una volta al “commissari” dell’esercito vincitore di Bancopoli, un’ultima volta ai veronesi). Sotto questo valzer di avvoltoi hanno prosperato cavatori, grandi e piccoli proprietari terrieri, speculatori edilizi, più in generale i piccoli notabili territoriali che da questi processi hanno colto l’opportunità di creare e consolidare le loro sacche di rendita. Col silenzio assenso di una politica che li annoverava tra i suoi grandi elettori. Convinta – a destra come a sinistra – che le centrali, le logistiche, le cave, gli ipermercati, le bi-ville fossero il prezzo da pagare per mantenere i servizi sociali, la manutenzione stradale, la sagra paesana, la prosperità del gonfalone. O, più cinicamente, garantire la propria rielezione. Il tutto, nella pressoché totale impotenza (o indifferenza?) della Provincia. E nell’altrettanto assoluto disinteresse del capoluogo.Paradossale, no? Proprio nel momento in cui abbiamo raggiunto l’autonomia, abbiamo accentuato la nostra subordinazione agli interessi esterni. Proprio nel momento in cui si è insediata la provincia si sono accentuate le pulsioni a perseguire gli interessi particolari di ognuno dei piccoli, talvolta microscopici, sessantuno comuni del territorio. Proprio nel momento in cui diventava capoluogo, Lodi si è chiusa in sé stessa, come se ciò che avveniva al di fuori della sua tangenziale non fosse degno di alcun interesse. O peggio, come se dell’autonomia, in fondo, non sapessimo che farcene. Nessun pensiero lungo. Nessuna visione di sviluppo, se non quella di costruire a Lodi un polo universitario per la ricerca e lo sviluppo imprenditoriale nell’ambito della genomica animale, che si sta rivelando oggi un costosissimo sogno incompiuto (così come del resto esperienze analoghe in altre aree del paese potevano far supporre). Da dove ripartire, allora? Ha ragione lei, caro direttore. Di bravi amministratori, di belle imprese, di floride realtà associative e di menti creative e dinamiche è pieno il territorio. Ma anche dai migliori ingredienti può venir fuori un piatto orribile, se sono assemblati male. Perché i bravi amministratori affrontano le loro numerose difficoltà in solitudine, se si pensa che nel Lodigiano ci sono solo due unioni di Comuni contro le diciotto nella vicina provincia di Pavia. Perché non c’è sufficiente impegno nel portare imprese nate altrove a operare sul territorio e nel farne nascere di nuove. Perché senza prospettive occupazionali soddisfacenti i cervelli se ne vanno altrove. Perché se si finisce per dormire nel lodigiano senza viverlo, anche il capitale sociale dell’associazionismo e del privato sociale rischia di disperdersi. C’è anche pieno anche di cose da fare, quindi. C’è da promuovere la nascita e lo sviluppo di nuove realtà imprenditoriali, perché sono le start up che creano occupazione e trasferimento di saperi. C’è da trovare nuove imprese che vogliano insediarsi sul territorio, magari sulle ventisette aree dismesse che lo punteggiano, sfruttando i collegamenti e la prossimità con Milano. C’è da sostenere la crescita di quelle eccellenze che già operano e prosperano nel Lodigiano, come ha ben fatto recentemente il Comune di Lodi con ICR. Ci sono da unire i Comuni, per ridurre i costi di struttura senza che vengano meno i servizi. C’è da mettere in rete, sempre più, l’associazionismo e il privato sociale, affinché possa evolversi in una logica sussidiaria, per rispondere sempre meglio ai bisogni delle comunità in cui opera. C’è da snellire la burocrazia e informatizzare per quanto possibile la pubblica amministrazione, affinché il territorio non sia ambiente ostile per chi vi opera e per chi lo abita. C’è da coprire ancora più di metà del territorio con una connessione internet a banda larga, ad oggi lo standard minimo per non dirsi sottosviluppati. C’è da mettere a valore, per quanto possibile, le bellezze artistiche, paesaggistiche e la cultura enogastronomica della nostra terra. E c’è da farlo in un regime di scarsità di mezzi che è, da sempre, il vero motore della creatività, dell’ingegno e dell’innovazione.Mi rendo conto di quanto una simile agenda di priorità possa sembrare tanto ovvia, quanto irrealistica. Ed è proprio per questo che, soprattutto, c’è da ricostruire un clima di coraggio e reciproca collaborazione che la renda possibile. Quello, per intenderci, che pur nella dialettica ideologica da Prima Repubblica, ha animato il Consorzio del Lodigiano e la battaglia per l’autonomia. Che con la conquista della stessa e l’avvento della Seconda Repubblica è progressivamente venuto meno. E che domani andrà necessariamente ritrovato se come sembra non ci sarà più alcuna provincia e alcuna autonomia. Starà a noi, insomma, dimostrare di non essere solo uno scudo multicolore su carta intestata, ma una comunità vera. Altrimenti, la prossima volta che suoneranno, saranno campane a morto.

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