In un ferragosto ansioso in cui tutta l’eurozona si dichiara in frenata, non c’è spazio per l’ottimismo, anche se i giovani sulla Riviera ci sono e non manifestano pessimismo. Solo finita la festa e tornati a casa torneranno a fare i conti con la realtà e con la fiducia. Lo stesso i politici. Ispirandosi a un americano di fine Ottocento, Alcide De Gasperi disse una volta che statisti e politici si potevano distinguere cercando di capire se la loro azione politica era rivolta alle nuove generazioni o, invece, alle prossime elezioni. Non occorre dire quale delle due categorie sia dominante o prevalga in Italia. L’Italia di oggi, non vive momenti prosperi e felici. E’ un Paese che non solo continua a denunciare una pericolosa carenza di classe dirigente, di civicness, ma che negli ultimi trent’anni ha perso capacità di dare occupazione ai giovani, di produrre figli e ricchezza. Per un Paese che invecchia, non solo non è bello, ma favorisce irragionevoli conflitti generazionali. Ma esistono le condizioni per un modello diverso? Per mettere in campo scelte attente che non penalizzino troppo le prerogative del presente, senza scaricarne i costi sulle generazioni future? Inoltre, cosa inaugurare a fare se i più preparati, una volta diplomati o laureati (con costi elevati per le famiglie e per lo Stato) se ne vanno? Se esportiamo oltre i capitali, risorse umane? Purtroppo non ci sono dati che permettano di stimare con buona approssimazione questa “fuga”. C’è chi dice cinquemila laureati all’anno, chi assai di più. Volendo prender per buone certe percentuali, il 7-10% dei laureati italiani è disposto a “provare”. L’Italia è infatti al secondo posto tra i dieci Paesi europei che cercano lavoro fuori, con 190.497 curriculum pubblicati su Eures (rete europea per l’impiego). Almeno questo dato è documentato. Anche chi non sa far di conto come noi, se conosce quanto costa all’anno allo Stato italiano uno studente universitario, moltiplicato per cinque anni (minimi per ottenere la laurea) arriva a quantificare lo spreco di risorse economiche e professionali nel caso tutti i curriculum venissero accolti dalle imprese europee. Davanti a questo rischio il premier lancia appelli contro la fuga - che non è solo quella dei ricercatori e degli accademici, ma di chi ha deciso di andare a trovare migliori opportunità di lavoro e stipendi più alti (salvo poi tornare perchè l’offerta estera è sì allettante, ma le condizioni di vita lo sono assai meno), e fa bene. Ma contro la rassegnazione ci vogliono decisioni. Non bastano i generici “ci stiamo pensando” dell’esecutivo. Egualmente, a coloro che non stanno al governo e agitano l’incognita giovanile con altre questioni per chiedere al Welfare pubblico protezione sociale (sostegno al reddito, politiche per l’occupazione, appoggio al precariato, legge sul lavoro) occorre dire che anche di questa manfrina non se ne può più. O, per dirla in cremasco con Beppe Severgnini, siamo un po’ tutti stufi di ascoltare che“chi sta al governo dica va tutto bene e chi sta all’opposizione risponda va tutto male!”. “Non è onesto obbligare i cittadini a scegliere tra promesse e populismo. La fiducia non la si può pretendere, né è merce che si possa acquistare all’ipermercato (senza soldi).In attesa che le parti si incontrino sul terreno delle norme e delle garanzie, e con le imprese, su quello della responsabilità e della concretezza, “il sistema” fronteggia il problema a modo suo: prolunga la dipendenza dei giovani dalle risorse dei vecchi genitori, incentiva le imprese meno virtuose a tagliare il più possibile sul costo del lavoro. Così si incentiva più la dipendenza che l’intraprendenza dei giovani. Un sistema scarsamente dinamico ed efficiente è anche un sistema più iniquo. Basta dare un’occhiata in casa nostra, nell’abduano. Non sappiamo se qualcuno si è mai preoccupato di sapere e di far conoscere il grado di allocazione annuale dei giovani laureati sul territorio. Si conoscono solo i dati dell’ “offerta” di lavoro per laureati delle imprese locali che fornisce l’indagine dall’Istituto Tagliacarne messa “a sistema” per la Camera di Commercio di Lodi, e che riscontra (da anni) la scarsa o addirittura nulla valorizzazione dei laureati. Gran parte dei quali finisce a rinforzare il numero dei pendolari o si decide per l’estero, mentre altri finiscono a far parte della repubblica degli stagisti (teoricamente un ponte tra studio e lavoro, ma con risultati non sempre all’altezza delle aspettative) e altri ancora nel magma dei precari, quando non si rimettono a dipendere in modo indefinito dai genitori (risorse permettendo). Qualcuno, infine, protetto dalla famiglia, “si accontenta di più”, si rassegna ad accettare contratti al minimo ribasso che in altri Paesi verrebbero considerati irricevibili o ad “aprire” partite iva senza sviluppo. Riuniti a pranzo il giorno di ferragosto si può essere ottimisti nell’uso del vocabolario. Pronti a dare ampio riconoscimento al capitale umano delle nuove generazioni, a considerarlo cruciale per lo sviluppo dell’economia. Ma perché verso questo obiettivo non ci si muove? Al di là di misure occasionali, che anche recentemente non sono mancate, fa difetto la mancanza di un progetto solido e coerente che miri a porre le nuove generazioni al centro del modello di ripresa e di sviluppo. Oggi col debito pubblico alle stelle, e che dimostra quanto si sia andati in direzione opposta, ovvero si siano messe in campo scelte attente solo a difendere le prerogative e il benessere “del presente”, decidere una politica che promuova l’autonomia dei giovani e che investa sulla loro protezione sociale è certamente difficile. Difficile non impossibile. Se è vero che gli scatti di ottimismo non bastano, non bastano neppure le polemiche tout court. Auguriamoci che con la massima celerità vengano adottate decisioni sensate in grado di aiutare i giovani a rendersi partecipi con la loro vitalità al risanamento del tessuto produttivo, in un orizzonte abbastanza ragionevole.
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