Che insegnare sia un’arte difficile e nello stesso tempo foriera di soddisfazioni è qualcosa già nota a tutti. Ciò che forse vale la pena sottolineare è che l’insegnamento, appunto perché libero, richiede sempre delle particolari doti relazionali proprie di chi ha un forte senso della missione in quanto esperienza, dell’altro in quanto persona, della coerenza in quanto a comportamento resi convincenti da una specifica sensibilità. Questo non vuol dire ammalarsi di buonismo.Al contrario. Ciò vuol dire saper gestire le risorse (e gli studenti sono risorse) specialmente quando l’insegnante è visto come una valida alternativa ai genitori portatori sani di conflitti. In quest’opera pedagogico-educativa non c’è laurea che tenga. Specialmente quando si lascia alle spalle l’Università con il massimo dei voti e si è convinti di avere in tasca la giusta preparazione per affrontare i ragazzi, salvo poi scoprire sul campo che conoscere bene Dante o Petrarca, Socrate o Platone non basta. Ciò che bisogna conoscere è appunto l’arte di insegnare che in sostanza vuol dire far emergere tutte quelle energie vitali che ogni ragazzo possiede. Di fatto a proprie spese talvolta si rischia di cogliere una qualche delusione per scoprire che le conoscenze acquisite, da sole, non bastano. Occorre certamente imparare a saper trasmettere la conoscenza, ma anche e soprattutto a mettere lo studente nelle condizioni di utilizzare proficuamente le proprie risorse. Un bravo insegnante deve saper andare oltre la conoscenza per scoprire di essere innanzitutto un educatore che sappia trasmettere entusiasmo per quello che fa. Occorrono, quindi, particolari doti morali e una spiccata sensibilità affettiva per recuperare i ragazzi in difficoltà. Una delle principali doti è quella di saper instaurare un particolare rapporto umano con i propri allievi da condurre con rispetto e misura, senza dimenticare che dietro ogni tentativo di arricchimento di esperienza relazionale si possono nascondere rischi e pericoli, inganni e incomprensioni fino a provocare amarezze e delusioni negli allievi come nei maestri. E’ proprio il caso di ricordare che la maggior difficoltà per un docente è quella di mettere in pratica ciò che la teoria ha insegnato. Credere di saper insegnare senza aver avuto modo di conoscere da vicino l’arte di insegnare è pura presunzione. E se qualcuno è convinto di questo, è bene che si ricreda. E’ possibile pure che qualcuno ignori tutto questo, ma in tal caso sono sicuro che il problema che si apre è di ben altra natura. Più che insegnare, in tal caso si potrebbe parlare di «insegnucchiare» che poi sarebbe una stonatura nel mondo dell’educazione. Per capirne il significato è sufficiente aprire il vocabolario per scoprire che «insegnucchiare» è l’opera di chi «insegna qualcosa alla meglio, con scarsa competenza o con scarso profitto». Da questo si capisce perché vale la pena insistere nel chiarire che insegnare, più che un mestiere, è un’opera che va esercitata con efficacia e professionalità, con amore e convinzione, con motivazione e passione e che in quanto tale merita un gran rispetto da parte di tutti. Soprattutto da parte dei genitori spesso vittime di esasperata saccenteria foriera solo di confusione di ruoli. Tuttavia le note dolenti sono presenti soprattutto nel docente che trova nel distacco motivo di affermata professionalità. E mi spiego. Quando un docente cerca nell’insegnamento cattedratico la forza della sua opera, è in errore. Si può essere fisicamente presenti, ma pedagogicamente distanti. Essere distanti dagli allievi può portare forse ammirazione, curiosità, conoscenza, ma non sfida, ricerca, dialogo, sentimento, ciò che per me sono gli ingredienti del sapere. E quando si è distanti dagli allievi, l’insegnamento risulta difficoltoso se non addirittura incomprensibile. Lo era quello di Parmenide, conosciuto nell’ambiente dei filosofi antichi come il cafone di Elea, (pare che si presentasse agli incontri sempre mal vestito) che invitato a dire la sua in uno dei salotti bene di Atene, fu preceduto da un’affermazione del suo allievo Zenone, noto per essere il suo fidanzato, (quasi tutti i filosofi a quell’epoca avevano il fidanzato) che preoccupato disse: «Attenti che se anche il mio maestro parlasse, voi non capireste nulla». Parliamo di filosofi. A loro tutto era ed è concesso, non così per i docenti. Uno può essere un pozzo di sapere, ma se non sa rapportarsi agli allievi, se non è in grado di scatenare una tempesta di umanità, se non riesce a dialogare, a farsi capire, non sarà mai in grado di trasmettere i valori del sapere. Non sarà mai un buon insegnante. Stiamo attenti. Non sto dicendo di abbandonarsi a buonismi o sentimentalismi di sorta, sto solo ricordando a un buon docente di muoversi attorno a dei valori che trovino nella dimensione umana la risposta a rifiuti e reazioni dei tanti ragazzi etichettati come «casi difficili». E’ vero, il mondo è cambiato in maniera complicata, talché oggi certi valori vengono sostituiti da altri erroneamente presi a riferimento e il profitto è uno di questi. Ovviamente il riferimento è al profitto materiale e non a quello scolastico. Ma non è sempre stato così. Di Talete, ad esempio, filosofo di Mileto, si diceva che era un insegnante svampito, sempre distratto, con la testa tra le nuvole. Poco incline al profitto materiale era, per questo, fatto oggetto di continue derisioni. Godeva, però, della generosità dei suoi allievi. Questo paradossalmente metteva in cattiva luce il maestro tanto è vero che di lui si diceva: «sarà pure istruito, ma a che serve tutta questa istruzione se poi sta sempre senza una lira?». Come si vede la considerazione sociale di un insegnante è rimasta immutata nel tempo. Ma il nostro filosofo non badava agli sfottò e andava avanti per la sua strada, offrendo un concreto esempio di come è possibile diffondere il pensiero senza rinunciare a una propria originale trasmissione del sapere. In quanto ai soldi, poi, non gli mancò una buona occasione per dimostrare che ci sapeva fare.
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