Nel confronto che si sta sviluppando in merito all’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, penso sia importante esprimere, anche a livello locale, la propria opinione. Da parte mia manifesto la mia contrarietà che non è dettata ne da motivi ideologici, ne di carattere affettivo, ma discende da un ragionamento che prende le mosse da alcune affermazioni fatte dal Presidente del Consiglio alla inaugurazione della Fiera del Levante: “O l’Europa torna a fare l’Europa, e non è più solo spread, o non abbiamo più futuro”. Penso che molti come me hanno visto nel processo di costruzione di una Europa sovranazionale, un percorso in grado di portare a compimento ciò che diversi stati avevano realizzato autonomamente: un sistema di benessere (welfare state) che si diversificava da quanto era stato realizzato in altre parti del mondo sviluppato. Il sistema sanitario a carattere universalistico, in Gran Bretagna, quello di assistenza sociale, tipico dei paesi nordici Svezia e Norvegia, i sistemi partecipativi del lavoro al mondo delle imprese, la compartecipazione nella Germania Federale, le tutele e le garanzie per i lavoratori tipiche del nostro paese, l’istruzione pubblica per tutti costituivano un sistema di welfare che si contraddistingueva nettamente da quello vigente negli Stati Uniti d’America, dove la risposta era di carattere prettamente liberista, piuttosto che sociale. L’Europa, come orizzonte politico, aveva il compito di consolidare questo sistema, estenderlo ai nuovi paesi aderenti e fare in modo che potesse essere un punto di riferimento nel contesto della globalizzazione, per fare in modo che, anche nei paesi emergenti, diritti sociali in grado di affermare uguali opportunità (chances di vita come le chiama R. Dahrendorf) divenissero strumenti per realizzare pari dignità per ogni persona umana. Oggi si può dire, senza tema di essere smentiti, che l’Europa ha abdicato a questa impostazione, ed ormai ha ceduto il passo ad un modello sociale che è tipico degli USA, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti legati alla deregolamentazione del mercato del lavoro. Non sfugge a nessuno, infatti, che il sistema di quel paese, garantisce bassi livelli di disoccupazione per effetto di mancanza di diritti e di una elevata precarizzazione delle forme di lavoro. Da questo punto di vista l’abolizione dell’art. 18 costituisce l’ultimo passaggio per uniformarci a quel sistema; ne consegue che il quadro di avanzamento sociale realizzato nel periodo dal dopoguerra ai primi anni 90 del secolo scorso, è del tutto superato, si ritorna al punto di partenza. E’ vero che il mondo è cambiato,ma è altrettanto vero che modernità non significa necessariamente progresso sociale, e difendere alcune conquiste non significa necessariamente essere conservatori oppure avere la testa rivolta al passato. Ciò che però intendo sottolineare è che questa impostazione significa, per me, affrontare i problemi posti da una crisi della portata di quella che stiamo vivendo, questo si, ricorrendo alla strumentazione del passato. E mi spiego. Oggi tutti si richiamano alle politiche keynesiane per uscire dalla crisi in atto, anche se poi gli unici strumenti adottati son quelli monetari della Federal Reserve americana e della BCE. Ci si dimentica che Keynes fu un economista che seppe elaborare una risposta innovativa ai problemi posti dalla crisi del 1929 ed a quelli conseguenti alla fine della seconda guerra mondiale. Siamo sicuri che questa ricetta sia applicabile ai problemi posti dai cambiamenti globali conseguenti alla crisi in atto? Ciò che si sta realizzando oggi a seguito della globalizzazione e del prepotente sviluppo che ha interessato alcune nazioni e continenti considerati sottosviluppati fino a pochi anni fa (la Cina, l’India, i paesi dell’America Latina, alcune nazioni dell’Africa stessa) è un processo di redistribuzione globale della ricchezza per permettere ai miliardi di persone di queste nazioni di potere usufruire delle condizioni essenziali per una vita dignitosa. Le politiche economiche dei governi occidentali, oggi, invece di affrontare il problema di fondo, conseguente a questa redistribuzione globale, ponendosi il problema di realizzare anche nei loro paesi una redistribuzione di ricchezza a favore delle fasce di popolazione più colpita dalla crisi (attraverso la fiscalità ed un sistema di protezione che assicuri a tutti uguali chances di vita) sostenendo in questo modo la domanda globale e contrastando i processi deflattivi in atto, vanno in una direzione diametralmente opposta, in quanto eliminare conquiste basilari per cui sono occorsi anni di lotte e sacrifici, non fa altro che assecondare il mercato nel processo di concentrazione della ricchezza e di accentuazione nella diseguaglianza nella distribuzione dei redditi a favore di chi gode già di condizioni favorevoli. Non è un caso che in Italia i settori che prosperano sono quelli legati alla industria del Lusso (la moda, l’enogastronomia, la Ferrari ecc) perchè è fra i consumatori di questi prodotti che si trova la domanda “solvibile”. Ma, con tutto il rispetto per le capacità innovative di chi ci lavora, confidare solo nel loro effetto di traino non è sufficiente per fare uscire dalla crisi il nostro paese. E’ invece necessario rilanciare una domanda diffusa che faccia perno su settori di largo consumo, e su questo non si può dire che il Governo Renzi non si sia posto questo problema, con l’inserimento in busta paga degli 80 euro, anche se questo intervento non ha avuto fino ad ora l’effetto sperato.Occorre continuare con determinazione su questa strada, e soprattutto occorre fare capire agli interlocutori internazionali che questo paese riforme in tema di lavoro e di previdenza le ha già fatte non più tardi di due o tre anni fa e che se la situazione non è cambiata ciò può voler dire non tanto che l’intervento fino a qui fatto non sia stato sufficiente, ma che la strada della compressione dei diritti non è la strada giusta.
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