Chiesti 17 anni per il sequestro in cantiere

Linea dura del pm dell’Antimafia per i due calabresi sotto processo

Rischiano diciassette anni di carcere i due calabresi sotto processo a Lodi per “sequestro di persona a scopo di estorsione” a seguito del blitz della polizia di Stato che il 13 luglio del 2009 aveva trovato il collaboratore di un’impresa edile di Crema “trattenuto” in un container - ufficio da una schiera di muratori che pretendevano dalla ditta il pagamento di 100mila euro. Il pm della Dda di Milano Giuseppe d’Amico ieri pomeriggio innanzi al tribunale di Lodi in composizione collegiale ha infatti concluso la sua requisitoria ritenendo che A.T., 40 anni, residente a Valbrembo, ed E.C., 38 anni, di casa a Dalmine, vadano ritenuti responsabili e che il sequestro fosse stato attuato nella sua forma più grave, quella, appunto, finalizzata all’estorsione.

Perché se è emerso chiaramente dal processo che entrambi sono entrati in scena solo il giorno stesso del blitz della polizia nei rapporti tra l’immobiliare Alba e la ditta di Crema che le aveva affidato il cantiere di via Mozart a Pieve Fissiraga, altrettanto chiaro, secondo la pubblica accusa, sarebbe il fatto che i due avessero fatto pressioni psicologiche affinché arrivasse in cantiere il denaro richiesto. Contestata a uno di loro la frase: «Se non ci fai avere i soldi ti attacchiamo alla gru».

Per questi fatti Francesco M., 37 anni, originario di Crotone e residente a Cremona, era già stato giudicato per rito abbreviato a Milano e il gup, a fronte di 12 anni chiesti dal pm, l'aveva invece condannato a 4 anni e 6 mesi, poi ridotti a 4 anni in appello, escludendo che il sequestro fosse a scopo di estorsione e ipotizzando invece che nascesse dall’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Il 37enne già giudicato sarebbe stato la “mente” delle pressioni nel cantiere in quanto l’immobiliare Alba, intestata a sua moglie, era legata all’immobiliare di Crema sia da questo contratto per le palazzine di Pieve sia da un altro contratto per un edificio a Linate, a proposito del quale il titolare G.B., in aula, aveva riferito di continue richieste di denaro oltre a quanto dovuto per contratto.

Questo lo avrebbe spinto a rivolgersi alla polizia una prima volta, per una denuncia, e poi a chiedere aiuto, il 13 luglio, per liberare il suo collaboratore che sarebbe stato trattenuto nel cantiere a garanzia del pagamento.

I due calabresi che invece si stanno difendendo nel processo a Lodi sostengono di essere arrivati a Pieve quel giorno solamente per smontare ponteggi e attrezzature, su richiesta dell’amico Francesco M., che voleva abbandonare il lavoro perché stanco di ritardi nei pagamenti da parte del costruttore cremasco: «Io qui al Nord una volta ero già stato truffato di 200mila euro, avevo paura - ha deposto ieri in tribunale E.C.-, posso aver esagerato con le parole, ma io non so niente di sequestri».

L'impresa cremasca, che è impegnata in una causa civile per gli aspetti contabili della vicenda, si è costituita parte civile con l’avvocato Michela Villa di Milano, a difendere i calabresi sono invece Arturo Valente del foro di Paola, Antonio Voce di Crotone e Domenico Altamura di Bergamo.

Tra due settimane prenderanno la parola i difensori, il verdetto invece potrebbe arrivare solo all'inizio di ottobre. I due imputati sono agli arresti domiciliari, con il permesso di lavorare in un’impresa siderurgica bergamasca.

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