Chi vuole la fine del mondo

L’opinione pubblica segue con non poca preoccupazione le drammatiche vicende dell’Ilva di Taranto, che configurano un colossale disastro ambientale e, cosa altrettanto grave, mettono in contrapposizione i poteri dello Stato. Com’è noto, sul più importante impianto siderurgico di Europa, privatizzato nel 1995, indaga la magistratura, che ha ordinato il blocco delle attività e il sequestro dei prodotti finiti e semilavorati, con la motivazione che l’impresa ha inquinato l’ambiente oltre ogni limite di tollerabilità, con gravi conseguenze per la salute pubblica. Se le linee produttive si fermano, migliaia di addetti rischiano il posto di lavoro. Nasce allora un tragico dilemma: a Taranto è più giusto salvare il lavoro, che vuol dire pane per tante famiglie, oppure la salute, che è il bene fondamentale della comunità? Si dovrebbero salvare l’una e l’altra cosa, ma è troppo tardi per raggiungere uno scopo così elementare. Le autorità sanitarie, le istituzioni e la stessa impresa siderurgica avrebbero dovuto collaborare secondo le specifiche competenze e responsabilità, in modo da prevenire un caso così grave di degrado ambientale, ma non lo hanno fatto. Pochi conoscono, aldilà dei fatti di cronaca, il significato e le implicazioni del caso. L’Ilva non è un evento unico o eccezionale, ma è lo sbocco naturale del pessimo rapporto che la società moderna ha instaurato con l’ambiente e della gestione irresponsabile dell’economia di mercato. Ci domandiamo: Quante sono in Italia le situazioni ambientali critiche, che possono esplodere da un momento all’altro in catastrofi uguali o peggiori di quelle occorse all’Ilva? Sono innumerevoli, secondo quanto documentano rapporti ambientalisti e inchieste giornalistiche. Del resto basta guardarsi attorno con occhio critico per cogliere che un capitalismo senza freni, nella sua veste legale o illegale, ha innescato delle bombe ecologiche e sanitarie. Le città crescono senza limiti mangiandosi il verde, mentre le imprese riversano nell’aria e nell’acqua tonnellate di veleni e cumuli di rifiuti tossici vengono sotterrati nei posti più impensati con il colpevole silenzio dell’autorità di controllo. Anche la campagna è sempre più spoglia e immiserita, con terreni inselvatichiti contesi dall’edilizia e cascine che diventano surreali laboratori dove si produce energia ed elettricità.Vogliamo fare qualche esempio? Cominciamo dalla Basilicata, un tempo sede di una interessante comunità rurale, che ha attratto file di sociologi e di studiosi italiani e stranieri. Oggi i contadini lucani scacciati dalle campagne più remote per fare posto al petrolio sfilano davanti alle telecamere con tutto il carico di antichi dolori, tenendo premuto il fazzoletto contro le narici per proteggersi dalla puzza di petrolio bruciato che ammorba l’aria. Fanghi e rifiuti derivanti dalle trivellazioni ricognitive, idrocarburi vari e piombo sono una minaccia per la salute umana. C’è un’inchiesta della magistratura, la speranza è che si riesca a portare la situazione sotto controllo ed evitare il collasso dell’intero territorio regionale. All’altro capo della penisola i comuni di Mestre e Porto Marghera si sono fatti una cattiva fama per una situazione di grave inquinamento industriale che ha stravolto luoghi di stupenda bellezza. Oggi, dopo lunghe vicende giudiziarie, si lavora per il risanamento e la bonifica con il supporto di una moderna rete di monitoraggio ambientale. Il meno che si possa dire è che si sono chiuse le stalle quando i buoi sono scapparti. E che dire della città di Trieste, dotata di un porto di grande rinomanza e di costiere mozzafiato? La sua delicata filigrana urbanistica, analogamente a quanto è accaduto a Taranto, è soffocata da una sterminata periferia industriale, che si presenta come un ammasso caotico di attività pericolose: stabilimenti siderurgici e chimici, raffinerie, inceneritori, cementifici, rigassificatori, terminali per combustibili e via discorrendo, che rilasciano nell’aria un micidiale cocktail di diossine e altri inquinanti. Non possiamo, infine, non citare il caso della pianura del Po, che è notoriamente un’area ad elevata vulnerabilità ambientale, perché l’assenza di vento, la barriera alpina e fattori meteorologici di diversa natura favoriscono il ristagno delle masse d’aria, al punto che la cappa di smog può persistere giorni e settimane. La situazione è resa ancora più grave sia per l’esagerato sviluppo della logistica, che ha innescato un aumento del traffico pesante, sia per le politiche perseguite da Stato e Regione che si ostinano a privilegiare il trasporto privato su gomma e progettano sempre nuovi tracciati stradali, nel vano intento di rendere più comodi e spediti i viaggi su strada. I dati della rete di monitoraggio evidenziano, invece, che in condizioni di alta pressione atmosferica, piuttosto frequenti nella meteorologia padana, la pianura diventa una camera a gas. Questo spiega l’elevata incidenza nella popolazione di malattie tumorali e cardiocircolatorie, che emerge dalle statistiche sanitarie e che non risparmia neppure il Lodigiano, che gode fama di bellezza acqua e sapone. Per questo diciamo: Stop a nuove autostrade, che annientano un ecosistema unico al mondo, Stop alla cementificazione selvaggia che ci priva dell’ossigeno necessario alla vita.In conclusione, anche la profezia Maya sulla fine del mondo, come tutte le profezie inventate o paventate dalla fantasia umana, si è rivelata assurda e ridicola. Non c’è alcun dubbio, però, che non la volontà divina, ma l’uomo stesso distrugge il mondo un poco alla volta, con le sue mani, rendendolo sempre più simile a un inferno.

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