C’è anche una scuola degli ultimi

«La scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi» ci ricorda, riferendosi agli studenti, Sigmund Freud. Questo vuol dire che compito primo della scuola è aiutare i ragazzi a crescere in virtù e conoscenza, ovvero a maturare come persone. In più di un’occasione si è puntato il dito contro la preoccupante debolezza dei genitori in difficoltà persino nel dare le più semplici indicazioni così come suggerisce Protagora: «questo è bello, quello è brutto, questo è giusto, quello ingiusto».In campo educativo sono spesso ultimi a capire la gravità e il peso di certe scelte. Se è vero che «genitori non si nasce, ma si diventa», allora è altrettanto vero che bisogna aiutare questi nostri genitori, attraverso un rinnovato processo formativo, a riscoprire il ruolo a cui si è chiamati, non per vocazione, ma per decisione di diventare tali. Alla scuola, che per vocazione è chiamata a istruire e formare, spetta anche il compito di farsi attenta promotrice di iniziative culturali e formative in grado di aiutare i genitori a scoprire ruoli e funzioni, compiti e processi per imparare a meglio conoscere i propri figli più da vicino, a scoprire i loro talenti, le loro singolari inventive, le loro sopite capacità, in ultima analisi a insegnar loro a saper affrontare i condizionamenti che l’ambiente circostante riserva a tutti e a ciascuno. Responsabilizzare i figli, ascoltarli, indirizzarli nelle giuste scelte, farli sentire partecipi della realtà che li circonda sono solo alcuni dei tanti valori da trasmettere. Ma c’è un problema che oggi, più di ogni altro, si impone all’attenzione di quanti sono vicini al pianeta scuola: la formazione professionale dei docenti. La classe docente sta vivendo una situazione di grave crisi professionale e non solo. Arrabbiata più che mai, deve fare i conti con chi sta mostrando i muscoli mentre ricorre a dolorosi tagli ritenuti una «conditio sine qua non» per risolvere un fenomeno ancestrale come il precariato, reso concreto da lunghe liste di scontenti in attesa di un tranquillo avvenire professionale. Sono anch’essi gli ultimi della classe docente stanchi di attendere, frustrati, demotivati, sia pur incoraggiati, ad adire per vie legali, dagli esiti di sentenze e tribunali. D’altro canto i docenti vengono spesso individuati come gli unici responsabili di certi fallimenti. Se così fosse sarebbe ancora più rilevante la necessità, espressa da più parti, di rivedere il processo di formazione da assicurare a chi vuole abbracciare la professione docente. Una figura quasi sempre al centro di particolari attenzioni al punto da mettere in risalto, sia pur in modo limitativo, tanto carenze pedagogiche, quanto leggerezze professionali. Che la formazione della classe docente sia un problema maledettamente serio, lo conferma una recente dichiarazione di Max Bruschi, consigliere del Ministro Gelmini, che ha recentemente annunciato l’imminente avvio dei Tirocini Formativi Attivi, una sorta di percorso formativo rivolto a docenti in attesa di una cattedra. Rimane una speranza. Che questi corsi non si riducano a un condensato di una semplice sanatoria in barba a qualsiasi richiamo di una rinnovata classe docente pedagogicamente preparata per affrontare gli innumerevoli problemi adolescenziali, uno fra tutti gli ultimi della classe. Una scuola che vuol definirsi di qualità non può e non deve trascurare nessuno. Tanto i primi quanto gli ultimi di una classe devono essere al centro delle attenzioni di un docente. Il principale problema per un insegnante è quello di educare, istruire e formare i ragazzi a lui affidati. E’ pur vero che l’istruzione, il più delle volte, è un processo dalla dimensione vincolata. Preoccupazione prima, infatti, per un insegnante è quella di garantire il successo del processo formativo mediante la valutazione del livello di apprendimento raggiunto dallo studente. Un livello che si snoda lungo un preciso elenco di descrittori che sfocia in una serie di parametri numerici. Ragion per cui chi si avvicina ai numeri alti è ritenuto un ottimo allievo, mentre chi rimane ancorato ai numeri bassi è un allievo difficile, un allievo zavorra, un allievo che rallenta il ritmo della classe e per questo un allievo segnato e pertanto privo di un’alternativa. A questo punto spesso come unica risposta che la scuola sa dare è quella di lasciarlo al proprio destino. Ed è qui che il docente cade in errore, venendo meno alla sua funzione didattico-pedagogica. Eppure il mondo non è fatto di soli primi in graduatoria o come ci ricorda Daniel Pennac, un tempo indomabile somaro a scuola (come lui stesso ama ricordare), ottimo insegnante in cattedra oggi, nel suo libro “Diario di scuola”: «Il problema è che vogliono farci credere che nel mondo contino solo i primi violini». Pennac ha anche parole dure per i suoi colleghi che «si credono dei Karajan e che non vogliono dirigere la banda del paese. Sognano tutti la filarmonica di Berlino. Ai proff. mancano dei corsi di ignoranza». Il problema sta proprio qui. Siamo sicuri che formare un allievo vuol dire assicurarsi solo del suo livello di apprendimento? Siamo sicuri che non ci sia altro da perseguire, da proporre, da ricercare, su cui vale la pena spendersi professionalmente? E se così fosse, dove mettiamo allora il livello di personalità che per gli adolescenti è una crescita in divenire e che non può prescindere dal livello di apprendimento? Sappiamo tutti che una personalità, un carattere, una specifica identità sono dimensioni che si costruiscono giorno dopo giorno, situazione dopo situazione. Cosa importante, a mio modesto parere, è insegnare a un allievo di lasciarsi prendere dalle passioni, dalle emozioni, dalle tensioni, dai sentimenti che aiutano ed educano chiunque a meglio scoprire se stesso, i propri slanci, le proprie avventure, ma anche i propri confini, i propri limiti. Lo aiutano anche a scoprire una creatività, una fantasia, un’elaborazione dei dati appresi ma anche quelli accantonati.Da qui si vede come si è di fronte a un complicato processo che va oltre una semplice questione fatta di giudizi sintetici o di numeri e questo nonostante Pitagora ci ricorda che «l’uomo si distingue dagli altri animali solo per la facoltà di numerare». Sempre meglio che dare i numeri.

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