Cos’è che trema sul tuo visino? È pioggia o pianto, dimmi cos’è...». Un altro Amarcord, dopo la “pioggerellina di marzo” dei nostri anni di scuola, che ci porta alle soglie degli anni ’60, quando l’Italia era ancora povera nel bursin ma ricca nel cuore. E con lo splendido, intramontabile successo di Domenico Modugno (Piove, Sanremo 1959), colonna sonora dei nostri sogni adolescenziali, passiamo dalla ‘pioggia’ al ‘pianto’ nel nostro dialetto. Scartando il banale italianismo di piang(e) e affini per ‘piangere’, concentriamoci su qualcosa di più originale. E partiamo da caragnà. La varietà di pianti che corrispondono al caragnà è molto ampia: si va dal pianto sommesso al pianto a dirotto. L’area d’uso di questo verbo si estende perlomeno a tutta la Lombardia, ma troviamo suoi parenti stretti anche nel friulano. Un primissimo esempio d’autore l’abbiamo nella Sposa Francesca del nostro De Lemene: «Cossa truvet de belle in Catelina? [...] con quei uggi la par che la caragna...». Se Catelina caragnava più di tre secoli fa, i “Caragnon del Dom” piangono ancora oggi. Spiegazione per i non lodigiani (o per quelli che “i patisun el füm dele candele”): Caragnon del Dom è l’appellativo popolare del gruppo quattrocentesco della Pietà - otto statue lignee a grandezza naturale anticamente utilizzate durante le celebrazioni della Passione - collocato nella cripta della nostra cattedrale. Caragnà parrebbe imparentato con l’italiano querimonia, ‘lamentela insistente e fastidiosa’, dal latino queri, ‘lamentarsi’. Con diffusione nella Bassa lodigiana e in alcune zone di Lombardia, Liguria ed Emilia, abbiamo anche cridà, ‘piangere’ (ad alta voce). La parentela qui è evidentemente con gridare, da un antico italiano cridare, anche questo di origine latina. C’è, all’opposto, il pianto “sottovoce”, quel piagnucolare che da noi si chiama pitulà. Anche questa voce parrebbe ereditata dalla lingua dell’antica Roma, da piulare ‘pigolare’, che diventa poi ‘lamentarsi sommessamente’. Se i nostri antenati romani, nonostante la fama di guerrieri e conquistatori, erano così piagnoni, come saranno i nostri nipoti lodigiani? Beh, a volte “i fan el mül”, letteralmente “fanno il mulo”, tipico comportamento del bambino capriccioso, che per ottenere qualcosa (o perché non l’ha ottenuto) piange con ostinazione o tiene il broncio a lungo. Il mulo è infatti proverbiale per la sua testardaggine. Avere il broncio si dice anche, nel linguaggio popolare del nostro settentrione, avere lapiva; particolare curioso: anche piva viene dal latino tardo pigolare. Prima però che il pianto erompa in lacrime e singhiozzi, cosa fa il nostro piccolo tenero esemplare di lodigiano doc? El fa el casül, risponderanno i nostri più affezionati (e attempati) lettori, si prepara cioè a piangere sporgendo il labbro inferiore. Il casül, traduciamo per i lettori, affezionati sì, ma - come si diceva una volta - ancora nel fiore degli anni, è il mestolo, e nasce (che novità!) dal tardo latino cattia, che ha dato all’italiano cazza, cazzuola, casseruola ecc. Il bambino italiano doc, per segnalare dalle Alpi a Lampedusa quando sta per piangere, fa invece il greppo o, più modernamente, il mestolino; mentre quelli più tradizionalisti e ruspanti fanno la scafa nel Veneto, al mesclèin nel Modenese, il bregno in Toscana e in Umbria, e via caragnando. Ma affrettiamoci a chiudere prima che anche a noi venga el magon, cioè il groppo o nodo alla gola, pensando che questo termine ci arriva non dal latino questa volta, ma dal longobardo mago, ‘gozzo’, importato quando gli invasori delle nostre terre in quei tempi tristi passavano le giornate gozzovigliando allegramente a spese dei nostri sfortunati progenitori.
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