Capitali stranieri e “regole”

Li abbiamo tanto invocati, i capitali stranieri, che alla fine sono arrivati abbondanti in Italia. I soldi delle vedove scozzesi, degli sceicchi arabi, dei fondi pensione californiani o di quello alimentato dai proventi del petrolio norvegese: hanno fatto incetta di aziende italiane e di pacchetti azionari nel corso dell’ultimo anno.Non è stata tanto una maggior attrattività del sistema-Italia a farli confluire qui, quanto un disposto di condizioni favorevoli (per loro) che ha fatto superare qualsiasi perplessità sul nostro Paese: un’abbondanza incredibile di liquidità da investire; i prezzi delle nostre maggiori e migliori aziende a livelli di saldo. Si sono comprati di tutto, i soldi stranieri: banche e assicurazioni, telecomunicazioni e petrolio, elettricità e reti elettriche, fino alle società di calcio. Non alle condizioniNon alle condizioni poste dagli azionisti italiani, che in sostanza cercavano molti soldi ma con la pretesa che gli investitori non avessero voce in capitolo. E il capitolo era: voi investite, noi comandiamo.Siccome nessuno è nato ieri (nemmeno loro), hanno investito sì, ma nel contempo scardinando quell’intreccio di relazioni tra pochi grandi investitori italiani che – con scarsi danari ma con abili manovre finanziarie – hanno guidato fino a ieri case automobilistiche e giornali, banche e finanziarie, insomma il meglio dell’economia italiana. Questi signori sono arrivati, ma hanno pure fatto pesare i propri investimenti nella governance delle aziende partecipate: non hanno nessuna intenzione di fare gli utili idioti. E il messaggio l’hanno lanciato forte e chiaro a tutti, Stato italiano compreso, che aveva deciso di inserire dei “criteri di onorabilità” all’interno delle aziende “partecipate” (Eni, Enel, Terna, Finmeccanica…). Il governo Letta prima, quello Renzi poi, volevano inserire una clausola che impone agli amministratori di queste aziende di dimettersi nel caso di rinvio a giudizio. Norma giuridicamente farlocca (occorre ripetere che un rinvio a giudizio non è una sentenza di colpevolezza?), economicamente indigesta – e rifiutata quasi ovunque – ad investitori stranieri poco propensi a far sottostare chi governa le loro aziende alla spada di Damocle della giustizia italiana.Qui sta il rovescio della medaglia di questa ondata di soldi stranieri nell’economia italiana. Si tratta di grandi fondi di investimento di matrice culturale anglosassone, poco o per nulla propensi a considerare l’etica come un principio valevole negli affari, e ad uscire dalla pura logica mercatista dell’economia. Fare soldi, produrre un utile, dare un dividendo agli azionisti: questo è per loro l’unico obiettivo aziendale. Proprio l’attuale crisi ha rimesso – almeno in Italia – in discussione la validità di questa logica che considera il lavoro uno strumento di produzione, i lavoratori un costo, l’utile aziendale la finalità esclusiva. Quindi: se i costi vanno compressi, si taglia serenamente la forza lavoro; i dipendenti migliori sono quelli che costano poco e fanno meno richieste possibili; chi se ne importa delle ricadute sul territorio, dell’indotto, dell’ottica di lungo periodo, dell’integrità aziendale se magari è più conveniente “spacchettare” tutto, ecc.Una brutta notizia per chi, come i cattolici, sta cercando di spiegare che un mondo (economico) diverso è possibile, che è l’uomo e non la riga dei profitti il fine ultimo dell’agire. Ma è anche compito di una politica assennata, quello di “umanizzare” il lavoro e di armonizzarlo con una società piuttosto che con la giungla dell’ognun per sé. La prima mossa dei criteri di onorabilità si è rivelata perdente, ma almeno ha dato il segno chiaro e incontrovertibile che c’è un braccio di ferro in corso tra logiche economiche (e non solo) diverse.

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