Calcio fermo, un segno di civiltà

Non può finire così, non è giusto. Eppure accade e comincia a diventare troppo frequente. Nel calcio ma non solo. La morte di un ragazzo di 25 anni su un campo di calcio è qualcosa che annienta, che lascia sbigottiti. Piermario Morosini se n’è andato in un sabato maledetto a Pescara accasciandosi in un attimo, con compagni ed avversari che si mettevano le mani nei capelli, con l’ambulanza che non riusciva ad entrare in campo per l’ostruzione di un auto dei vigili, con uno stadio che è ammutolito di colpo: pensava di assistere a una festa, si è inabissato nella tragedia. Per una volta il calcio ha fatto la cosa giusta: si è subito fermato, per rispetto, per riflettere. Naturalmente c’è già qualcuno che eccepisce, che non è d’accordo, ma per fortuna quella che un tempo veniva chiamata la «pietas» ha prevalso sull’insensibilità dilagante, sugli interessi di parte. Tutti fermi dunque, anche se qualcuno può eccepire che allora ci si deve fermare sempre, ad ogni morte sul lavoro, ad ogni lutto imprevisto. Qui però è diverso, per due motivi soprattutto: raramente milioni di persone, tra cui tantissimi bambini e ragazzi, hanno potuto assistere ad immagini così drammatiche, praticamente in diretta: se ancora possiamo dirci uomini, non possiamo poi resettare tutto un attimo dopo e ricominciare a vedere una partita come se niente fosse. In più, ripetiamo, il valore simbolico del calcio è o almeno dovrebbe ancora essere, quello di una festa: si va al campo per divertirsi, giore o arrabbiarsi magari, ma per assistere a qualcosa di bello, per distrarsi delle preoccupazioni di ogni giorno. Che in questo momento di gioia irrompa la morte non è previsto: lo abbiamo letto sulle facce dei giovani compagni che fino a un minuto prima giocavano al fianco di Piermario: a nessuno di loro, ancora giovane e spensierato, ha mai minimamente sfiorato il pensiero che giocando una partita la vita ci possa abbandonare. Invece è successo. Ora anche sui soccorsi ci saranno le immancabili polemiche, governo e ministro della Sanità si sono già interrogati per capire se si è fatto abbastanza per salvare quel giovane, se si fa abbastanza in Italia sul fronte della prevenzione. Qualcuno si è precipitare a dire che è solo fatalità, che è un evento che colpisce solo lo 0,4 per mille dei giocatori in attività, che rispetto ad altri Paesi il nostro è anzi molto più avanti a livello di medicina sportiva e di visite legate all’abilitazione. Può darsi. Ma bisogna pur interrogarsi se stiamo superando un limite, se c’è qualcosa che si può, si deve fare di più. Ecco perché lo stop del calcio è un segno di civiltà che l’Italia dà agli sportivi e al mondo intero che ieri ha trasmesso in ogni parte del globo gli ultimi istanti di vita dello sfortunato ragazzo. E sfortunato Morosini lo era davvero: bergamasco verace, aveva già dovuto rialzarsi tante volte nella vita, aveva perso mamma, papà e un fratello disabile in pochi anni, ma sempre aveva reagito anche grazie a quel mondo del calcio, il suo mondo, che doveva rappresentare per lui una forma di riscatto. Anni fa abbiamo avuto la fortuna di ammirarlo dal vivo ad Asti, in Piemonte, quando lui, capitano delle giovanili dell’Atalanta, si era aggiudicato un torneo importante, vincendo anche una coppa come miglior giocatore della competizione. Aveva doti tecniche e umane, sapeva fare squadra, era molto amato dai suoi compagni prima a Bergamo, poi a Udine, dove aveva esordito in A e quindi nell’ultima tappa della sua carriera, a Livorno, che doveva rappresentare il trampolino di lancio per tornare in A. Riflettere è quindi doveroso: su questo ragazzo e su tanti come lui, da Renato Curi in avanti, fino all’ultimo e recentissimo caso di Vigor Bovolenta, bandiera del nostro volley, che hanno chiuso gli occhi per sempre su un rettangolo di gioco, tra la disperazione e l’impotenza di chi lo circondava e che si è visto trasformare la festa in funerale.

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