Business Park, l’occasione Expo è persa

Avendo già espresso valutazioni negative sul progetto Business Park in un’intervista pubblicata su Il Cittadino lo scorso 30 gennaio, ho preso atto con piacere delle precisazioni del sindaco Uggetti il quale, rispondendo a Francesco Cancellato, esprime il riconoscimento della necessità di un dibattito approfondito sull’opportunità del progetto, al tempo stesso ridimensionandone alcuni profili preoccupanti. In particolare raccolgo con soddisfazione le assicurazioni del sindaco sul carattere non tassativo degli interventi progettati, sul loro possibile ridimensionamento in rapporto alle reali necessità e aspettative di utilizzo, sulla loro flessibilità rispetto a possibili alternative. Questo lo dico perché ritengo indispensabile un approccio da un lato pragmatico e realistico in ordine alle aspettative di ricadute positive sul contesto lodigiano che si può ragionevolmente sperare di avere dal completamento del cluster del Parco tecnologico e dalla sua messa a pieno regime, ma anche un approccio di forte visione di prospettiva e, per certi versi, ideale sul modello di sviluppo che ci si prefigura per Lodi e il suo territorio.Cerchiamo di essere realisti sulle aspettative; riporto a questo riguardo un passo dello studio di M. Balconi e A. Passannanti nell’introduzione del loro volume su I parchi scientifici e tecnologici nel Nord Italia (Franco Angeli Editore, pagg. 23-24): “... un parco può sopravvivere, pur conducendo una vita stentata e senza riuscire a realizzare gli obiettivi, se nel medio periodo è in grado di coprire i costi vivi tramite gli introiti derivanti dagli affitti e dalla vendita dei servizi. In questo caso gli investimenti pubblici sostenuti per l’avvio del parco non sono giustificabili e comunque non vengono recuperati... È ormai chiaro che, al di là delle capacità manageriali dell’impresa che gestisce i parchi, in molti casi le speranze delle comunità in questo strumento sono state mal riposte, con grossi sprechi di denaro pubblico”. Deve essere chiaro che non c’è alcun automatismo tra la realizzazione di un Parco industriale collegato ad un polo scientifico e di ricerca e le aspettative di business e occupazione in loco. Da un lato un Parco tecnologico, cioè una realtà che fa ricerca e innovazione e regge nella misura in cui riesce a tradurre i risultati della sua attività in prodotti e applicazioni appetibili per la commercializzazione, non può limitarsi ad avere come interlocutore un piccolo pacchetto di aziende stabilitesi nelle vicinanze; uno dei fattori di successo nella gestione dei parchi è una forte capacità manageriale da parte di chi lo gestisce, con conseguente capacità di suscitare l’interesse del maggior numero possibile di aziende operanti nel settore e quindi di una vasta platea di operatori (è questa l’esperienza di alcune realtà ad esempio tedesche nelle quali si è preferito sacrificare la componente dell’insediamento immobiliare per puntare soprattutto sull’integrazione e sulla comunicazione con tutte le realtà di settore o di sistema).Dall’altro, alle aziende interessate bisogna poter offrire, oltre agli spazi (comunque non certo 400.000 mq. di suolo, un’autentico sproposito a fronte di insediamenti medi intorno ai 50.000 mq. di edificato), prossimità e contiguità ai centri di ricerca, rete di infrastrutture e collegamenti adeguati, l’accesso a strumenti finanziari pronti sostenere progetti innovativi (e quindi la presenza di istituzioni finanziarie adeguate), la disponibilità di una massa critica di servizi professionali (legali, contabili, di consulenza, di marketing, ecc.), collaborazione e supporto da parte delle istituzioni politiche locali e regionali così come delle rappresentanze del settore economico di riferimento (se non ci sono le condizioni per fare sistema è meglio lasciar perdere) e, da ultimo (ma non per importanza), una qualità della vita attraente per addetti, manager, tecnici, ricercatori e magari anche giovani laureati e qualificati in cerca di occupazione.Spesso si è parlato del Parco industriale come del luogo in cui i lodigiani disoccupati potrebbero trovare posti dove essere assunti, ma un aspetto di appetibilità nell’offrire un luogo di insediamento a margine di istituzioni di ricerca e universitarie è quello di trovare lì la manodopera qualificata, e da questo punto di vista l’apporto al bisogno occupazionale lodigiano sarebbe in ogni caso marginale. La ricaduta positiva di esperienze insediative ben riuscite è quella di una rivitalizzazione del contesto sociale e urbano, con il riflesso su una serie di attività non solo di indotto e di supporto alle aziende, ma anche accessorie e complementari alla vita delle persone che vi lavorano (ristorative, ricreative, culturali, sociali, artigianali, ecc.). Per questo sono necessari interventi di altissima qualità progettuale, caratterizzati da forte integrazione con il tessuto socio-urbano esistente e attentissimi alla salvaguardia dei valori ambientali, paesaggistici o urbani che siano; da questo punto di vista non è di rassicurazione l’esempio e il modo in cui cresce e si sviluppa il polo universitario, per il quale questa attenzione all’integrazione con la città non c’è stata e che, così andando avanti, rimarrà qualcosa di estraneo e marginale a Lodi. La sottolineatura a inquadrare l’intervento Business Park in un contesto più generale è tanto più opportuna quanto più si pensa che ciò che abbiamo alle spalle è una politica di utilizzo indiscriminato e dissennato del territorio di Lodi e del suo circondario, con un consumo di suolo tra i più alti in Lombardia e in nome di prospettive di impianto di attività e occupazionali che non si sono realizzate e ci hanno lasciato in eredità solo un territorio devastato. La dissennatezza di questa politica risulta di ancora maggiore evidenza se si pensa alla collocazione e all’inevitabile vocazione di Lodi, che è quella di essere un piccolo centro alle porte di Milano (cioè del maggior polo produttivo, economico, finanziario, terziario italiano, a cui inevitabilmente gran parte della popolazione circostante guarda come al centro della propria attività lavorativa e al luogo dei propri interessi professionali); quello che una realtà come Lodi può offrire di appetibile rispetto alla metropoli milanese non è certo di essere una propaggine per l’ulteriore espansione della periferia residenziale, industriale e commerciale del capoluogo lombardo, ma se mai quello di essere un polo residenziale di pregio per lavoratori e famiglie, ma anche di insediamento per realtà terziarie e commerciali che pure guardano alla vicina metropoli, ma potrebbero trovare qui un contesto ideale per vivibilità, qualità della vita, sicurezza, comodità di collegamenti, ricchezza di infrastrutture, valori ambientali preservati e fruibili, costi e prezzi accessibili; sono convinto che da questo tipo di attrattività passi il futuro di Lodi come centro vivo e espressivo di una realtà territoriale ricca di pregi e valori.Conosco l’obiezione a queste mie considerazioni, che giocoforza per ora esprimo solo in termini generali: ripensare tutto in questi termini potrebbe significare rinviare ancora a chissà quando ogni intervento. Ma anche su questo siamo realisti: l’occasione Expo, se mai c’è stata e lo è stata, è persa, c’è ormai troppo poco tempo; il resto è materia che, prima di intraprendere, c’è da pensare bene per essere certi di realizzare qualcosa di valore e duraturo. A questo riguardo credo che ci sia bisogno del massimo concorso di idee: il futuro di Lodi non è della politica, è di tutti i lodigiani.

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