Dalla maratona di due giorni che si svolge a Bruxelles per l’approvazione del Quadro finanziario pluriennale emerge con forza la distanza delle posizioni tra i Paesi membri dell’Ue e, più ancora, si palesa la differente visione dell’intero processo d’integrazione comunitaria che hanno in mente Cameron e Hollande, Merkel e Monti, Rajoy e Tusk.Il Consiglio europeo del 7 e 8 febbraio doveva sostanzialmente definire, mediante il Qfp, le cifre-quadro dei prossimi bilanci annuali dell’Ue compresi tra il 2014 e il 2020. La proposta iniziale della Commissione, superiore ai 1.000 miliardi, era già stata abbondantemente decurtata al vertice di novembre. Ieri la nuova riunione dei 28 capi di Stato e di governo (i 27 leader attuali più il premier della Croazia, che aderirà a luglio), è partita con sei ore di ritardo per consentire al presidente del Consiglio, Van Rompuy, di limare ulteriormente alcune poste di bilancio, come chiesto con decisione dal premier britannico e da altri Stati del Nord. La Germania, altro Paese “rigorista”, appare un poco più propensa alla mediazione. Sul versante opposto Francia, Spagna, Italia e alcuni Paesi dell’Est a chiedere che il bilancio abbia consistenza sufficiente per sostenere la crescita, la coesione territoriale, l’innovazione e il mercato unico, la politica agricola e ambientale. Sulla stessa linea il Parlamento europeo, seconda autorità di bilancio con il Consiglio, che, per bocca del suo presidente Schulz ventilava un “baratro fiscale” e minacciava il veto al Qfp.Così, nel corso della notte, la cifra per gli “stanziamenti d’impegno” ha preso la via dei 960 miliardi, mentre quella per i “pagamenti” (il contante a disposizione per le politiche comuni nei sette anni a venire) si avvicinava a 900. Si tratterebbe di un taglio netto del bilancio comunitario non solo rispetto alle proposte della Commissione, ma addirittura sul budget pluriennale in corso (2007-2013). Ovvero un passo indietro dell’Europa, che nel frattempo è cresciuta geograficamente, per popolazione e per competenze politiche. Si metterebbero così in forse numerosi investimenti e progetti rivolti, ad esempio, alla coesione sociale e regionale, alla realizzazione di infrastrutture, alla protezione dei cittadini, alla ricerca, allo sviluppo agricolo, alla cultura e alla formazione giovanile...Ora, in attesa di veder messe nero su bianco le decisioni assunte dal summit, s’impone una riflessione proprio sul modo d’intendere la stessa Unione europea, l’integrazione politica ed economica e persino il grande disegno dei “padri fondatori”, i quali vedevano nella convergenza degli Stati europei un processo atto a dare pace, libertà, stabilità, benessere ai popoli, in un quadro sostanzialmente solidaristico. È quanto hanno richiamato alcuni premier, quanto hanno invocato Parlamento e Commissione europea; ma non sembra questa la convinzione di altri leader, con in testa David Cameron che, non a caso, a pochi giorni da questo summit ha promesso ai sudditi del regno un referendum, da tenersi nel 2017, per decidere se rimanere o meno nella “casa comune”. La storia comunitaria insegna, peraltro, ad avere pazienza: l’integrazione ha sempre proceduto con balzi in avanti e brusche frenate, con slanci generosi e con ritorni di fiamma degli egoismi nazionali. La conclusione di questo vertice - forse in buona parte affidata alle capacità di mediazione e alla forza politica della Germania - saprà dire a che punto è il cammino dell’Unione.
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