BORGHETTO In ospedale otto mesi per uscire dal tunnel del Covid-19

Stefano, 55 anni, ha dovuto anche lasciare la polizia: «Voglio testimoniare una sola cosa: questa malattia esiste, ed è terribile»

Venerdì scorso quando l’ambulanza lo ha riportato a casa dalla riabilitazione di Sant’Angelo, dopo 9 mesi da ricoverato, di cui 8 per riprendersi dal Covid, lui non lo sapeva ma la via era piena di palloncini e all’improvviso una volante della polizia in sirena ha scortato gli ultimi metri di percorso. E appena è sceso, il questore Giovanni Di Teodoro gli è subito andato incontro.

È la storia di Stefano, 55 anni, di Borghetto, una delle voci storiche del centralino della questura di piazza Castello, che già nel novembre scorso aveva dovuto affrontare l’ospedale per una polmonite, con una diagnosi di legionella, e che poi, ricoverato a Codogno in febbraio per seri problemi ortopedici, il 4 marzo ha scoperto di avere preso il Covid-19. Dopo un mese di allettamento, ha dovuto affrontare una riabilitazione a Sant’Angelo Lodigiano che è finita solo settimana scorsa. Ha faticato tantissimo per ritornare a stare su una sedia, perchè i muscoli non c’erano più, e poi è tornato a camminare.

«Ero isolato dal mondo, non sapevo neppure che c’era stato il lockdown. Poi ho scoperto che ci sono persino i negazionisti del Covid. Il primo pensiero è di mandarli a quel paese, seriamente, voglio testimoniare una sola cosa: questa malattia esiste, ed è terribile».

Il primo ricovero, quando nessuno conosceva il nuovo coronavirus, risale a novembre 2019: «Gli hanno diagnosticato la legionella, ha fatto 15 giorni in rianimazione - ricorda la moglie Nadia -. Ma mi ricordo in corridoio che c’era già allora un ragazzo con febbre a 40 e tosse continua, e una donna che raccontava di suo marito con una forte polmonite. Non è che ci fosse già il Covid? È un dubbio che mi resterà sempre. E forse allora Stefano ha sviluppato anticorpi».

A Natale, finalmente, il poliziotto torna a casa. Ma a gennaio la sua schiena peggiora: tre viaggi fino in ospedale a Lodi, fino alla prime cure, un busto ortopedico e poi anche vitamina D e calcio, e poi, «insistendo», sottolinea la moglie, lo mandano a Codogno. «Là dapprima si lamentano ritenendo che non sia la destinazione migliore, poi però si attivano al massimo, consultando anche specialisti di altri ospedali».

Con i primi casi Covid a Codogno però tutto cambia. I medici decidono di mandare il poliziotto, che inizia ad avere sintomi influenzali, a Lodi, il 2 marzo gli fanno il tampone, prima del trasferimento, il 4 arriva l’esito: positivo. Stefano quando telefona ha più tosse che parole, la glicemia è alta e i reni soffrono. E i medici dicono che il suo cuore non gli permette l’intubazione o la dialisi: se si aggrava, è la fine. E invece, dopo parecchio ossigeno, il 4 aprile arriva il tampone negativo e inizia la fisioterapia.

Il ministero dell’Interno ha valutato la situazione di Stefano e lo ha “riformato”, mandandolo in pensione. Ha due figli a cui pensare, «e le tante cose che in tutti questi mesi non ho fatto». «Da quando sono uscito dall’ospedale vedo tutto con una luce diversa, i fatti più piccoli non sono più scontati. E, devo confessare, il lavoro in questura mi manca. Chi si troverà a un centralino al mio posto dovrà ricordarsi sempre che la sua è la prima impronta di un’istituzione. E anche questa è una cosa importante».

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