Basta scrivere: “l’opinione pubblica pensa” e il gioco è fatto

Se è vero che tre indizi fanno una prova, probabilmente siamo in presenza di movente, colpevole e arma del delitto. L’informazione sui temi etici in Europa, come testimoniato dall’intervista allo scrittore e opinionista francese Bernard Lecomte, sembra seguire binari prestabiliti, in cui quella che viene presentata è la presunta “opinione maggioritaria”, senza dare spazio a quella che invece è la “pancia” reale del Paese. Dice Lecomte: “Sul tema d’attualità dei matrimoni omosessuali si è creato uno squilibrio: il 95% della stampa si è espressa a favore, mentre in realtà l’opinione pubblica è molto più divisa. E i media non sanno ospitare un vero dibattito”. Trend diffuso: dalla perfida Albione ai cugini d’Oltralpe, dalla Spagna fino alla Germania. Questo lo si è visto bene anche in Italia. Prima nel 2005 con il referendum sulla Legge 40, quando, a leggere la maggior parte dei quotidiani, sembrava che tutta la nazione non vedesse l’ora di dare una spallata alla “legge oscurantista”. Come andò a finire è storia nota: 75% di astensioni, perché “sulla vita non si vota”. E poi nel 2009 con Eluana Englaro: per i media un vegetale attaccato alle macchine cui era meglio e più salutare augurare una morte rapida. Morte su cui, ovviamente, tutto il Paese era in perfetto accordo. Peccato che siano state raccolte migliaia di mail e di messaggi da parte di migliaia di persone che chiedevano, anzi meglio invocavano, di non eseguire la condanna, di lasciar vivere ancora la ragazza sconosciuta ma quasi di famiglia. Scrivere “l’opinione pubblica pensa”, oppure “la gente dice”, esprime la calcolata strumentalizzazione di un pensiero collettivo, ipotetico aggregato formato invece da molteplicità di individui, cui attribuire idee e conclusioni proprie. E fornisce l’occasione per due uguali derive: la tentazione per il singolo di nascondersi dentro un’opinione considerata maggioritaria e l’opportunità, per i mass media, di incanalare il pubblico verso scelte predefinite attraverso l’esaltazione di quello che viene spacciato per “diritto” del singolo. I media sono responsabili della costruzione del senso sociale di un Paese e condizionano molti aspetti della vita quotidiana delle persone. È essenziale che ne tengano conto nell’esercizio delle loro funzioni, perché influiscono sulle nostre scelte, in tutti i momenti, tutti i giorni. Le informazioni che vengono trasmesse, soprattutto quando si riferiscono a temi sociali, sono spesso viziate da alcuni peccati originali: emotivismo, spettacolarizzazione, scarsa documentazione, superficialità, ideologizzazione. Nella maggior parte dei casi si tende a veicolare messaggi univoci, senza appello e senza contraddittorio, privilegiando una sola fonte e rimbalzandone il comunicato stampa, amplificando le distorsioni e dilatando le semplificazioni. Selezionare le fonti attendibili, verificarle, approfondire e valutare i contenuti, tutelare la privacy, sono tutte azioni che devono caratterizzare l’operato dei giornalisti nel momento in cui si occupano di dare una notizia e, tanto più, quando si tratta di temi etici che scuotono nelle fondamenta il comune sentire. Anche perché, la notizia diffusa sulle prime pagine resterà sempre la notizia “vera”, mentre quelle che seguiranno, pur se di rettifica, saranno percepite solo come accessorie e, conseguentemente, irrilevanti. Paradossalmente, non si può non notare come nell’epoca dei social network e del giornalismo “diffuso”, a una crescita esponenziale di fonti informative non corrisponda né una maggiore qualità delle stesse, né una maggiore comprensione dei temi. La forza del giornalismo è sicuramente correlata anche alla sua capacità di rappresentazione simbolica dei fatti. E questo richiede un supplemento di attenzione e rispetto, soprattutto nei confronti della dignità dei lettori, poiché la rappresentazione non è mai neutra, ma è strettamente funzionale alla partecipazione a valori politici e sociali.

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