L’operazione “Odissey Down” è partita. Sembra il titolo di un film o un nuovo capitolo della saga dell’agente 007. Invece è una delle tante maschere lessicali che la retorica di guerra usa per rendere più tollerabile l’intervento militare agli occhi dell’opinione pubblica. Precedutadal consueto marketing politico-strategico, l’offensiva delle forze occidentali in Libia contro il colonnello Gheddafi è entrata nel vivo e prosegue a pieno ritmo. Chi ha seguito le vicende libiche nelle ultime settimane sa che l’intervento militare è stato deciso, secondo le fonti ufficiali, per liberare la popolazione libica dalla morsa delle truppe fedeli a Gheddafi, impegnate a riconquistare con la forza il possesso del territorio dopo che i ribelli avevano tentato di rovesciare il dittatore. L’attacco armato deciso al vertice di Parigi ha il sostegno di una coalizione internazionale, è avallato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, ha il placet della Lega araba e vede coinvolti tutti i maggiori Paesi europei (con l’eccezione della Germania). Per questo è “legittimo”. L’Italia ne è protagonista a pieno titolo, quindi non è sbagliato dire che siamo in guerra. Eppure questa terribile affermazione sembra non turbare più di tanto le nostre coscienze, forse perché ci sembra che si tratti di qualcosa di lontano, forse perché i vertici istituzionali cercano di minimizzarne in tutti i modi la portata, forse perché ancora una volta la spietata retorica bellica riesce a far passare come normale ciò che normale non è. In situazioni di conflitto, per i comandi militari e per i governi è necessario avere il consenso della popolazione senza metterla in allarme. Per questo, il linguaggio bellico usato anche dai mezzi di comunicazione è intriso di propaganda. La retorica di guerra ha regole precise, a partire dal nome scelto per l’intervento militare. Nel caso della Libia si parla di “Odissey Down” (“L’alba dell’odissea”), locuzione che richiama significati epici e poetici ma nasconde in realtà una pesantissima ombra di morte, dolore e distruzione. Si insiste sulla “giusta causa”, ovvero sul motivo evidente che ha reso “indispensabile” l’intervento armato. Ed eccoci servita “un’azione per debilitare l’apparato militare di Gheddafi, neutralizzare i sistemi anti-aerei, alleggerire l’assedio sulla capitale e su altri centri”. Ma dietro verbi innocui e rassicuranti come “debilitare”, “neutralizzare”, “alleggerire” si nasconde una pioggia di fuoco, missili e bombe dalla portata distruttiva enorme. Si individua “il” nemico, in questo caso facilmente identificabile in Muammar Gheddafi, e lo si demonizza ben al di là delle sue effettive responsabilità e delle nefandezze che ha compiuto. Si nasconde o si nega qualunque precedente relazione con lui, dalla vendita di armi agli accordi politici, dagli scambi commerciali alla presunta diplomazia del baciamano. Si insiste sulle insopportabili condizioni in cui il regime dittatoriale costringe la popolazione, che quindi deve essere liberata anche con la forza delle armi. Si polarizza agli estremi la distinzione tra buoni e cattivi, tra giusto e sbagliato, ragione e torto. Si prova a dare coerenza e ordine all’azione sul campo, dividendola in fasi successive (Fase 1, Fase 2…) per dare al pubblico l’impressione che tutto sia sempre sotto controllo. Al termine di ogni attacco, sia un raid aereo o un lancio di missili, si diffondono puntuali comunicazioni a conferma che “gli obiettivi sono stati centrati”. Non si insiste sul numero di morti e feriti provocati dai bombardamenti, né sulla loro identità. Si afferma l’idea della “guerra lampo” e degli “attacchi mirati” (durante la guerra del Golfo si chiamavano “bombardamenti chirurgici”), come se davvero si potesse definire a priori la durata di un conflitto e come se esistessero veramente bombe capaci di colpire soltanto i cattivi. Purtroppo, mediaticamente parlando, ogni guerra è fonte di spettacolo, emozione, attesa e conseguente attenzione da parte dei cittadini o, per meglio dire, del pubblico. I mezzi di comunicazione si adattano perfettamente alle forme temporali e linguistiche dell’evento bellico, grazie alla loro capacità di condensare le narrazioni e i discorsi attraverso stereotipi e semplificazioni. In questo modo ci allontanano dalla drammatica realtà, rendendola parte di un racconto avvincente che ci attrae e ci stordisce più che preoccuparci o indignarci. E così ci dimentichiamo che in ogni guerra la stragrande maggioranza delle vittime sono donne, bambini, anziani e civili inermi, incapaci di distinguere fra chi viene ucciso perché è finito nel mirino e chi invece muore perché si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Se la guerra distrugge vite e luoghi, la retorica bellica annienta la nostra capacità critica e ci rende insensibili alla sofferenza di chi ne è vittima. Cerchiamo di non cadere in questo cinico gioco.
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