Nel tessuto delle quindicimila e oltre imprese della provincia di Lodi le attività che possono vantare la distinzione di genere e la classificazione di attività artistica culturale sono oltre un migliaio e mezzo, circa il 10,5% dell’intero tessuto economico. Naturalmente se insieme alle attività convenzionali (pittura, scultura, grafica, ceramica, musica, spettacolo) si uniscono anche il mobile in stile, il restauro, la scultura lignea, la lavorazione della carta, la stampa, il vetro fusion, la fusione metalli, l’arte orafa, il cesello, il design, la fotografia, il cinema, il computer graphic, la liuteria, la creazione di moda, il restauro, il trompe oeil, l’affresco, alcuni campi specialistici dell’architettura d’interno (decoratori e stuccatori), le attività artistiche e di intrattenimento (l’organizzazione di festival, le scuole, le iniziative di divertimento e svago ecc.) la produzione di beni indifferenziati per uso proprio, ecc. Si tratta di una realtà numericamente ampia più di quanto si pensi. In momenti di grave crisi occupazionale come gli attuali, una nicchia e un “rifugio”. Non si fatica a trovarvi dentro talenti, vocazioni, competenze. Non solo presenze operative legate alle varie forme-tipo, ma esempi di vera creatività, attente a valorizzare per un aspetto la produzione d’arte – ovvero la koiné, il saper fare, saper fare bene, saper fare a regola d’arte – e, per un altro, le diverse forme di cultura d’impresa, sia pure condotta autonomamente, che danno valore economico e sociale. Una recente ricerca della Fondazione Symbola, della quale si è già detto nella pagina culturale del Cittadino, ha svelato che in Lombardia le 85mila industrie creative più quelle culturali vere e proprie, insieme al patrimonio storico e artistico e alle rappresentazioni artistiche e di divertimento realizzano un valore aggiunto stimabile attorno ai 20 miliardi, qualcosa molto vicino al 30% dell’intero valore aggiunto prodotto dall’intero sistema culturale italiano. Al risultato regionale il lodigiano partecipa con il 2% delle attività ufficialmente registrate e con un plusvalore di oltre 250 milioni di euro, pari all’1,5% del totale lombardo. È vero che si tratta di semplici “stime”, ma i risultati non difettano in rapporto ad altre stime disaggregate del valore aggiunto. Si accordano cioè con la densità del territorio, la popolazione residente, le qualità specifiche dei comuni principali e le caratteristiche del tessuto economico. Nel considerarle vanno comunque tenute presenti le voci che i ricercatori hanno fatto rientrare nel modello econometrico-statistico, ovvero: le Industrie creative (Architettura, Comunicazione e branding, Design e produzione di stile, Artigianato artistico), le Industrie culturali (Produzione film, video, radio, tv, Videogiochi e software, Musica, Libri e stampa), il Patrimonio storico-artistico (Musei, Biblioteche, gestione di luoghi storici) e il Performing arts e intrattenimento (Rappresentazioni artistiche, Divertimento, Convegni e fiere). Sempre dalla ricerca si deduce che nell’Alaudense il motore propulsore è rappresentato dalle “Industrie culturali”, un aggregato il cui plusvalore è stimato in 126 milioni di euro, seguito dal complesso delle “Industrie creative” (99,6 milioni di euro), dal “Performing arts e intrattenimento” (18,7 milioni) e dal “Patrimonio storico-artistico” (6,9 milioni). Il sistema produttivo culturale occupa, compresi gli interni, circa 4000 unità. Senza contare che all’interno di questa economia esiste anche una realtà di operatori occasionali e non, che non sono tenuti ad alcuna iscrizione al Registro delle Imprese della Camera di commercio, una grossa fascia produttiva sconosciuta all’opinione pubblica e che sfugge ad ogni conteggio, molte delle quali si viene a conoscenza solo in occasione di mostre, fiere e mercati Questo mondo, di cui abbiamo cercato di tratteggiare un sommario profilo, rivendica da tempo giusta considerazione. La scarsa attenzione di cui lo si circonda non può essere che motivo di delusione e di polemica. È vero che a un “festival delle promesse elettorali” si possono strappare tutti gli impegni e le assicurazioni possibili, che poi ci porterebbero a considerare con ulteriore amarezza la scarsa credibilità della classe politica. Se si considera però che nell’ultimo mese su 2.195 titoli guadagnati sui maggiori giornali nazionali solo due (due!) sono quelli abbinati alla cultura (rilevazione Ansa) c’è quanto meno da inquietarsi. La disattenzione per l’artigianato artistico non è solo quella dei partiti e dei politici che si sono dimenticati della cultura nei loro programmi. C’è anche quella della stampa e dei giornalisti, distanti mille miglia dalle problematiche del settore. Sui giornali, l’informazione elettorale tocca tutti gli argomenti: Europa, democrazia, lavoro, libertà, diritti, fisco, evasione, elusione, beni comuni, patrimoniale, banche e imprese, scandali finanziari eccetera. Tranne le attività artistiche e culturali. Eppoi c’è quella dell’opinione pubblica, che nasconde un atteggiamento un po’ retrò se non arcaico, che pretende che l’artigianato artistico e l’industria culturale siano al riparo da istanze economiche. Che immagina per artisti e intellettuali una vita lontana dai traffici, procul negotiis, come li sognava quell’Alfio di cui parla Orazio ( Epodi, ode 2°), appartata e immune dall’ impuro contatto con il mondo quotidiano degli interessi. Questa visione che immagina l’artista e l’uomo di cultura intenti ai soli valori dello spirito e della poesia, è sparita almeno da qualche secolo. Un pittore, scultore, ceramista, grafico, scrittore, musicista svolge attività meritoria non solo creativamente, ma perché esercita una attività economica come tutte le altre attività d’impresa. Èscontato ch’esso si attenda quindi dalla politica e dall’informazione una qualche attenzione. È vero che molti si gettano volentieri sulla politica personale, con tutti i risvolti che ciò comporta. Diversa è però l’istanza che il “sistema” fa emergere quando chiede ascolto per una politica qualitativa. Una cultura che non entra nel dibattito politico (e in quello elettorale) o vi entra di straforo e solo per alcune sue voci, è un cultura destinata a non avere voce nella destinazione delle risorse.
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