“Amarcord” fra raspadüra e lüganighe

Rimpatriata della Terza F della Scuola Media “Ada Negri”, 1960. Una scadenza inusuale - di solito ci si rincontra dopo vent’anni, già quaranta è un azzardo: pensare di ritrovarsi la prima volta dopo cinquant’anni è pura follia. Eppure, grazie a Dio, ci siamo quasi tutti.Affiorano alla memoria versi d’ignoto autore: «... nemmeno il soffio del tempo/ cancella l’impronta dei sogni»: per ciò forse le nostre “ragazze”, alcune ora nonne in carriera, le riconosciamo al primo sguardo. Già, eravamo l’unica classe mista, invidiata dai compagni di altre sezioni e temuta dalle mamme, in ansia per le loro bimbette accerchiate da un branco di maschiacci.Alla messa - celebrata da don E., nostro compagno di classe ed oggi parroco di lungo corso - ricordiamo Lauretta, partita anzitempo per l’ultimo viaggio. Poi tutti “a met i pe suta ‘l taul” in una trattoria dei Chiosi. Sono i giorni della “Rassegna gastronomica del Lodigiano”, ma di ludesan nel menù del posto c’è soltanto la raspadüra: il resto, pure i piatti tradizionali di casa nostra, tutto in perfetto italiano. Sarà per festeggiare i 150 anni dell’unità nazionale, più che giusto; staremo a vedere l’an che ven. D’altronde, dopo cinque anni di elementari italocentriche e tre di medie latinodipendenti, nessuno dei presenti osa obiettare. Molti però ricordano che alle “pubbliche virtù” predicate a scuola si contrapponeva il “vizio privato” del dialetto praticato in famiglia. Che nessuno ha dimenticato. E che ci consente di assaporare la pulenta rustida e la cassöla, la lüganega e le pulpete de marisan, la fritada rugnusa e il giambon, lo strachin gelad e il tuchelin de grana, proposti in altri locali della “Rassegna”, almeno sotto l’aspetto linguistico.Ma mentre pulenta, pulpete e grana, chiunque li può ordinare ad occhi chiusi perché non necessitano di traduzione, ad eventuali commensali furesti dobbiamo, per dovere di ospitalità, qualche spiegazione.A partire dalla lüganega, la lucanica nazionale che, come diceva Varrone (autore latino del I sec. a.C.), è «...una salsiccia fatta con l’intestino crasso del maiale, chiamata lucanica perché i soldati l’hanno imparata a fare dai Lucani». Pare però che siano stati i Longobardi - buongustai giunti da föravia sei secoli dopo - a portarla al nord, facendone un piatto tipico delle nostre terre.Con la lüganega, sbriciolata e passata al burro, noi lodigiani prepariamo la fritada rugnusa, un nome ben poco attraente per una pietanza davvero molto gustosa.Altrettanto saurida ma non meno calorica è la casöla: specialità della tradizione contadina lombarda, è un piatto a base di verze e parti povere del maiale (piedini, cotenne, costine ecc.). Il nome le viene dal tegame, la casiröla-casseruola, in cui la si cucina.Sempre il maiale (lod. nimal, l’”animale” per eccellenza della nostra gastronomia) si sacrifica per offrirci il giambon, dal francese jambon (jambe= gamba), che l’italiano medio chiama prosciutto, dimenticandosi così del munifico donatore.E i marisan? Li riconoscono anche M., emigrato a Milano (dove li chiamano mere-giann), e D., trasferita nel Cremasco (dove sono detti marezà). Per il resto del mondo diremo che i marisan sono le melanzane.Dulcis in fundo (il latino, come il primo amore, non si dimentica) lo strachin gelad: panna montata con aggiunta di zucchero, mandorle tostate e cioccolato a pezzetti; il tutto va poi tenuto in frigo per qualche ora prima di gustarlo.Ma a tavola il tempo vola; prima di lasciarci, ci affrettiamo a prenotare per la prossima rimpatriata, fra cinquant’anni (a nome dei nostri nipoti). Chissà se fra i commensali si potrà gustare ancora il dialetto? O ci si dovrà accontentare di fried chicken e chips, oppure zongzi e gong baoji ding, o magari couscous e kebab?

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